Da anni, il mio mantra sul complottismo — un tanto al chilo o più elaborato, poco cambia — è il seguente: non c’è niente “dietro” lo scenario del mondo, è tutto davanti a noi. Talmente davanti a noi che si rischia di non vederlo.

Il Gruppo Bilderberg in plenaria a Torino, città grillina e insieme sabaudo-notabilar-salottiera, in contemporanea con il G7 in Canada, è il teatro di sempre. E’ talmente scontato che non sposta niente. Letteralmente zero. 



John Elkann e Lilly Gruber pagheranno questa super-segreta e super-comunicata, insieme, 66esima riunione del Gruppo Bilderberg, secondo le ferree regole del medesimo: chi ospita, apre il portafogli.

Riunione informale, come si conviene per notabili che discutono facendo “come se” non fossero gangli dell’establishment, che è quanto di più rigorosamente ipocrita vi possa essere. Insomma, un circo neanche mediatico ma ultra-mediatico, perché supera i multiformi media per diventare canale, oggetto, infine linguaggio e messaggio. 



I partecipanti confermano questo trito e ritrito ballon d’essai, alimentato dall’algido e blindato cervello dei complottisti di professione, che hanno il sense of humor di Himmler durante un comizio urbi et orbi al popolo nazista. Dietro la segretezza della riunione, che da sempre costituisce l’ingrediente di base di questa nouvelle cuisine post-moderna e, per certi versi, creatrice della stessa cupidigia del prefisso “post”.

Chi c’è a questa riunione bilderberghiana? Tutti, come alle feste dei cosiddetti vip, matrimonio dei reali inglesi, appena celebrato, incluso. Dalla regina al pastore di colore, targato Usa, dell’amore universale; alla sessione Bilderberg, cosa cambia? Niente. Ci sono tutti, quei “tutti” che non possono non esserci. Elkann, Gruber, per arrivare al card. Parolin. Perché anche la Chiesa in questo consesso? Ma perché, nel mondo del non-evento, descritto da Baudrillard all’indomani del 1989, tutto diventa evento se attraversato da certi caratteri dominanti. Uno di questi, essenziale, è il “post” elevato all’ennesima potenza.



Dal populismo alla “post-verità”, i titani del Bilderberg non si faranno mancare niente, parlando a braccio, brevemente, sussurrando punti di vista di chissà quale abissale profondità, accostumandosi all’ecumenismo del nulla che si rovescia nel Medesimo: c’è da fremere d’invidia per coloro che potranno anche avvicinarsi al sacro tempio di questa aurea congregazione…

I grillini, assai al di là del multiverso pentastellato, ci stanno dentro alla grande, Casaleggio docet. Grillo urla contro il Palazzo quando c’è la plebe infoiata, poi va a cena con chi guida le danze — non i “politici”, dunque — e incassa spazio pubblico e risorse di varia natura. Ecco perché Torino. Sono patetici i complottisti, altro non saprei dire: ma che c’è da esaminare “dietro” questo circo?

Solženicyn aveva già capito tutto alla fine degli anni 70 e non faceva riferimento all’Urss, troppo facile, ma all’Occidente: il discorso di Harvard, 8 giugno 1978 (ops, guarda caso, proprio lo stesso giorno del Bilderberg!). 

Che dentro questa giostra ci sia anche il verticismo clericale dei neo-dialoganti, che, come da manuale, oscillano tra la teologia della liberazione (nata nelle università tedesche, tra parentesi) e i cda più gettonati, non solo non mi sorprende, ma non fa altro che confermare la mia tesi di fondo: il 900 è finito e il nuovo tempo non è abitato dai suoi residui. Occorre cambiare lenti e iniziare ad usare la “fuzzy logic”, magari lasciando agli accademici la disamina della nuova fenomenologia del potere, dei residuali partiti, personali, ancillari e funambolari. Qui il discorso sul Bildenberg è come quella situazione secondo il motto del paradosso: tragico, ma non serio.

E il tragico riguarda la comica gravità di contorno inscenata sul nulla in oggetto, non la fibra oggettiva dell’evento.