Caro Enea Ciocca,
mi permetta innanzitutto di ringraziarla per il suo articolo perché, proprio grazie alle sue critiche, mi consente di completare il mio pensiero e scansare qualche equivoco.
Vorrei innanzitutto sottolineare il punto sul quale concordo immediatamente con lei: immigrare è una scelta dolorosa (lo è sempre stata) ed oggi è diventata una tragedia. Come in ogni tragedia sono infatti in gioco due valori altrettanto dignitosi: il diritto ad emigrare e quello a non esservi costretti, cioè il diritto a vivere nella propria terra e tra la propria gente.
La storia dell’emigrazione raramente, molto raramente è una storia a lieto fine. In realtà la vita di chi emigra è costantemente trafitta da tante appartenenze mancate, dall’esperienza di non essere mai al posto giusto, tra la propria gente. Ciò accade anche quando si torna a casa dopo decenni di permanenza all’estero; anche quando si riesce a ricostruire una vita professionale. Gli antropologi culturali hanno diagnosticato in tre generazioni (tre) il minimo diaframma temporale affinché si possa avere una reale integrazione culturale in una cultura che non è quella del proprio paese d’origine.
Anch’io ho incontrato ed incontro tra gli emigrati persone migliori di noi e, proprio come lei, sono seriamente preoccupato per il loro futuro. Bene, molto bene fa la Chiesa a ricordarci il dovere di accogliere. Bene, molto bene fanno quelle comunità parrocchiali che riescono ad accogliere una, due, cinque famiglie, secondo le loro possibilità; bene, molto bene, fa lei con il suo santo lavoro di accoglienza.
Tuttavia un fenomeno può conoscere delle dimensioni impreviste qualora alle ragioni originarie se ne sommino altre generate dagli attori sociali stessi. Non dobbiamo solamente fare del bene, ma dobbiamo anche essere coscienti delle conseguenze secondarie delle nostre azioni, cioè di tutto ciò che inavvertitamente mettiamo in moto senza nemmeno rendercene conto.
L’accoglienza della quale danno testimonianza le organizzazioni religiose, alla quale si aggiunge la scelta dei Paesi europei di (non) distribuire fondi ai paesi che accolgono gli emigrati, le stesse Ong che raccolgono in mare uomini e donne disperati che hanno pagato denaro contante (molto) per avventurarsi in mare aperto, sono attentamente seguite nei Paesi di partenza degli immigrati. Ho già scritto della speculazione che gli Stati prima e i trafficanti poi hanno realizzato sulla pelle di queste persone alimentando l’illusione di un inserimento possibile, preceduto da una paterna ed efficace assistenza.
Il nodo centrale del problema risiede nei soggetti che attirano persone, convincendole che tutto sia semplice e che chi li riceve, poiché è pagato per farlo, non può che rispettare quello che è un loro diritto. E qui c’è il lato terribile della tragedia: ogni sforzo nel recupero e nell’accoglienza, specialmente quando è spettacolarizzato e amplificato dai media (fatto che puntualmente si verifica), non può che produrre un aumento dei flussi immigratori, convincendo anche quanti, per prudenza, erano rimasti a casa ad intraprendere il viaggio. Le Ong fanno un lavoro lodevole, ma quanto la loro stessa presenza non finisce per alimentare i traffici di queste persone? E ciò anche quando non vi è nessun contatto con gli scafisti, né alcuno scambio criminale?
Cosa fare? Certamente, oltre ad una opportuna sordina mediatica, occorrerebbe aumentare i centri e le risorse, magari unendo ad una semplice assistenza piatta dei veri e propri percorsi di apprendimento, che includano oltre alla conoscenza della lingua e di qualche regola minima anche l’acquisizione di qualche abilità operativa. Ma una politica che si fermasse solo a questo e non cercasse di ridurre i flussi sarebbe semplicemente da irresponsabili. Infatti, oltre un certo limite quantitativo, il sistema salta. Gli immigrati fuggono dai centri di accoglienza con la speranza di transitare per le maglie dei controlli di frontiera e potere così accedere agli ambìti servizi di welfare francesi, olandesi e tedeschi che assicurano una vita dignitosa anche a chi sia senza lavoro.
Non c’è nulla di male in tutto questo se non il fatto che siamo in un’epoca di crisi e chi accoglie (l’Italia) è lo stesso paese che vede i propri giovani e le proprie donne emigrare per andare a fare le cameriere ad Amburgo o i pizzaioli nel Kent, quando non addirittura i raccoglitori di Kiwi nella lontana Nuova Zelanda. Il lavoro che resta disponibile in Italia è quello peggiore e non si tratta solo di svolgere lavori marginali sottopagati, ma soprattutto per gli immigrati clandestini si tratta di restare nell’ombra, senza un’identità, alla mercé dell’unico datore di lavoro con gli uffici di accoglienza sempre aperti: la criminalità organizzata.
Da qui all’inferno il passo è breve. Si finisce infatti nel mercato parallelo della devianza oppure, per i più onesti, in quello della mendicità, assicurandosi (non senza lotte a volte sanguinose) il proprio spazio vitale, quando non addirittura affidandosi alle organizzazioni malavitose che iniziano a regolare il traffico dei mendicanti là dove può essere più remunerativo.
Non ci vuole molta fantasia per capire il quadro che si sta per aprire, qualora una tale onda anomala si gonfiasse ancora di più. Recupereremo il nuovo sottoproletariato del terzo millennio. Accanto ai mendicanti, ai posteggiatori ed ai lavavetri costretti a pagare il “pizzo” per l’esercizio della loro attività, rivedremo i “ragazzi di vita” dentro le stazioni ferroviarie, l’incremento della prostituzione e soprattutto lo spaccio di massa all’ombra delle organizzazioni criminali che si organizzeranno al meglio per allestire e controllare il tutto, aumentando così il loro potere e la loro influenza. Non vedere tutto questo è da ingenui e in politica, mi debbo ripetere, l’ingenuità è un reato che fa più danni della corruzione.
È ovvio che la risposta alla domanda del “che fare” passa attraverso un controllo dei flussi e, come lei ha opportunamente osservato, non è facendo retrocedere il dramma dalle acque del Mediterraneo alle sabbie del Sahara che il problema si risolve. Ogni soluzione reale implica inevitabilmente un salto da compiere sul piano dei rapporti internazionali. Qualunque finanziamento per lo sviluppo nelle aree di origine dovrebbe necessariamente prevedere l’arresto momentaneo delle relazioni commerciali qualora i progetti non siano realizzati nelle forme convenute. I flussi di giovani che vanno via dai paesi di origine non dovrebbero più essere visti come un’opportunità per liberarsi di forza lavoro, ma come l’indicatore di un fallimento politico, il segnale dell’incapacità di una classe dirigente che andrebbe valutata per deficit di umanità prima ancora di esserlo per il deficit nelle finanze.
Le soluzioni che qui indico non possono essere che parziali e vanno certamente arricchite e perfezionate. Ciò che c’è di certo è l’ampiezza del problema: non avere soluzioni immediate e definitive non porta affatto a diminuirne l’ampiezza, né ad attutirne le conseguenze che inevitabilmente si produrranno.