Un massacro orribile, senza pietà, fino all’ultimo. In realtà quello che successe poco dopo la mezzanotte del 17 luglio 1918, cento anni fa, a Ekaterinburg, sui monti Urali, lontanissimo da Mosca, fu talmente violento che alcuni degli stessi esecutori non ressero all’eccidio, vomitando e allontanandosi dalla scena. E’ la strage della famiglia imperiale dei Romanov, quando furono uccisi lo zar Nicola II, la zarina Aleksandra Fedorovna e i cinque figli. Insieme a loro i sei accompagnatori, tra cui il medico di famiglia. Da diverse settimane erano stati deportati qui, rinchiusi in un edificio, la Casa Ipat’ev, mentre infuriava la guerra civile tra l’Armata Rossa e quella dei Bianchi, sostenitori dello zar. Fu proprio la notizia che i Bianchi stavano giungendo nei pressi della città ad accelerare le cose. A occuparsi di tutti fu inviato un uomo estremamente fidato tra i bolscevici, il comandante Jurovskij. A differenza del precedente responsabile della prigionia dei Romanov che insieme ai suoi uomini aveva maltrattato, derubato, fatto fare la fame alla famiglia, Jurovkij si prese cura di loro mentre preparava l’esecuzione, permettendo di curare il figlio minore Aleksej, malato di emofilia, e l’ex zarina. Ogni giorno si informava delle loro condizioni. L’esecuzione fu decisa per la notte tra il 16 e il 17 luglio, ma le guardie rosse si rifiutarono di partecipare perché non volevano sparare sui figli dello zar. Furono chiamati degli ex prigionieri di guerra austro-ungarici che avevano aderito alla rivoluzione.



L’ECCIDIO DELLA FAMIGLIA ROMANOV 100 ANNI FA

A mezzanotte il comandante disse allo zar che dovevano prepararsi a un trasferimento urgente e fece scendere tutti in uno scantinato facendoli disporre come se dovessero fare una fotografia, con i figli seduti davanti e gli adulti dietro. Nella stanzetta c’erano Nicola II, la moglie Aleksandra, il medico Botkin, l’inserviente Trupp, il cuoco Charitonov, i cinque figli, Ol’ga, Tatijana, Marija, Anastasija, Aleksej e la dama di compagnia Anna Demidova. Dietro la porta con una pistola in mano erano pronti i giustizieri, entrarono e si disposero su tre file, poi si scatenò l’inferno. Le donne furono colpite mentre si facevano il segno della croce, ma i gioielli che le figlie avevano portato con sé nella fuga incredibilmente fecero loro da scudo respingendo i colpi. “Si formarono tre file di uomini che sparavano con le pistole. E la seconda e la terza fila sparavano al di sopra delle spalle di quelli che erano davanti. Le braccia con i revolver, protese verso i condannati, erano così tante e così vicine l’una all’altra che quelli che erano davanti ebbero il dorso della mano ustionato dagli spari di quelli che erano dietro, il mio aiutante dovette consumare un intero caricatore” scrisse nelle sue memorie Jurovkij. “Le due figlie minori dello zar erano accovacciate per terra contro la parete, con le braccia strette sul capo. Intanto due stavano sparando contro le loro teste. Aleksej era disteso sul pavimento. Qualcuno sparava anche contro di lui. Lafrel’na [tata, la Demidova] era sul pavimento ancora viva” raccontò uno del plotone di esecuzione.



Le urla di terrore delle ragazze riempivano la stanza, quando fu ordinato di finire i superstiti a colpi di baionetta: “La baionetta aveva l’aspetto di un pugnale, ma la punta non era acuminata e non penetrava. Ella si aggrappò con ambo le mani alla baionetta e cominciò a urlare. Poi la colpirono con i calci dei fucili” racconta ancora il testimone. Dopo venti minuti dall’inizio del massacro, l’erede al trono era ancora vivo, fu finito con tre colpi alla testa. Ma quando cominciarono a buttare i corpi sul camion che doveva portarli nella foresta per seppellirli in un luogo nascosto, si accorsero che le ragazze erano ancora vive: “Quando deposero sulla barella una delle figlie, essa lanciò un urlo e si coprì il volto con una mano. Constatammo che erano vive anche le altre. Ormai non si poteva più sparare, perché le porte erano aperte […] Ermakov prese il mio fucile con la baionetta innestata e a colpi di baionetta finì tutti coloro che erano ancora vivi”. Portati nel folto della foresta, i cadaveri vennero fatti a pezzi, buttati in una fossa e quindi bruciati. La stirpe dei Romanov era finita per sempre, dopo 300 ani di potere assoluto. Solo nel 1979 i resti vennero ritrovati e riconosciuti ufficialmente nel 1998. Furono quindi trasferiti nella cripta della cattedrale di Pietro e Paolo a San Pietroburgo. Oggi solo la Chiesa ortodossa, che considera i Romanov dei santi martiri, infatti furono canonizzati nel 2000, ricorda l’eccidio, l’amministrazione Putin non ha speso invece una parola.

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