Maggie Haberman, premio Pulitzer 2018 per le inchieste sul Russiagate, corrispondente del New York Times alla Casa Bianca, lascia Twitter. E lo fa denunciando la deriva del social più usato dai politici e dall’establishment per intervenire nel dibattito pubblico, accusando la piattaforma di violenza, razzismo, xenofobia e sessismo, sottolineandone l’involuzione rispetto allo spirito innovativo e visionario dei primi anni. La scelta della Haberman è sicuramente rispettabile: resta il fatto che, al di là delle considerazioni di merito, sussistono alcuni punto su cui val la pena fermarsi a riflettere.
Anzitutto stupisce l’ingenuità della giornalista americana: l’idea che esista una piattaforma, ma anche una famiglia, una casa, una comunità “pulita”, libera dalle lordure dell’umano, è qualcosa di più di un’utopia, è la pretesa che possa esserci un luogo dove la libertà dell’individuo non incida, dove non sia necessario fare delle scelte per renderlo buono, migliore, adeguato. La rete è uno strumento nelle mani di chi lo usa: Twitter, Instagram, Facebook non hanno colpe se non quelle di porre la persona in una condizione ottimale per mostrare se stessi senza filtri e senza maschere. Da questo punto di vista è interessante come nella rete ci siano tanti “tu”, tante identità virtuali più o meno reali, ma pochi “io”: il venir meno di un rapporto concreto e carnale facilita la tentazione presente in ciascuno di nascondere se stessi di fronte all’altro. Il fatto di potersi difendere dietro una tastiera “brucia” il tempo in cui uno deve stare, resistere, allo sguardo di un altro, al punto che non si può parlare a caso, ma è sempre inevitabile affrontare la sfida di uno che c’è. La scomparsa di quest’uno — reso virtuale dalla rete — evita all’internauta di dire “io”, di essere responsabile di quello che dice e che fa.
E qui affiora un terzo problema: i social sono un luogo pubblico, ma sono un luogo in cui non vige alcun principio di responsabilità. Tutti possono parlare, indipendentemente dalla formazione che hanno e indipendentemente dalle conseguenze delle loro parole: questo alimenta il caos, l’illusione che la democrazia sia dire liberamente piuttosto che partecipare con fatica ad un rapporto che abbia come obiettivo il bene di tutti. Democrazia non è dire quel che pare e piace, ma contribuire al discorso pubblico in un’ottica di responsabilità.
Finché il mondo dei social non si doterà di abilitazioni all’interazione e al commento — a seguito di una profilatura più precisa e di una sottoscrizione di responsabilità — non ci saranno vie d’uscita al caos che la Haberman denuncia e che è stato fondamentale per le fortune politiche di molti negli ultimi due anni. Perché il punto è proprio questo: la confusione è funzionale al potere, il potere la sfrutta per affermarsi come argine necessario, come principio autoritaristico capace di riportare ordine e, quindi, di garantire equità e giustizia. Comprendere la valenza pubblica dei social, evitare di commentare e di ribattersi reciprocamente, limitarsi a condividere contenuti o pensieri senza giudicare l’altro, ma leggendo e accogliendo tutto come provocazione, significa iniziare a vivere la rete come un luogo in cui essere sfidati e provocati dal cammino dell’altro. Senza cadere nella trappola di chi, frustrato dalla vita reale, non aspetta altro che una buona occasione per trasformarsi da agnellino a lupo e rivendicare per la propria identità virtuale quel rispetto e quello spazio che la storia quotidiana di tutti i giorni sembra minacciare di toglierli.
Alla fine è sempre tutto qui: chi non fa un’esperienza di realtà davvero umana diventa disumano con tutti, trasforma tutto quello che tocca in uno strumento della propria violenza. Senza provare a custodire se stesso e il dolore che ha nel cuore, usando la neutralità della rete per ottenere quella giustizia che da sempre aspetta. E che nessuna giornalista premio Pulitzer potrà mai donargli con i propri richiami etici ad essere un uomo migliore. Il problema non è la rete, il problema sono le stelle. Le stelle che mancano al cuore dell’uomo per essere lieto, per essere umano, per essere libero perfino dal proprio dolore, perfino dalla propria inaspettata violenza.