C’è dispiacere tra le persone comuni per la morte di Sergio Marchionne. Non capita mai quando se ne va un “padrone”, un uomo ricco e potente. Per il suo predecessore alla testa dell’impero Fiat non fu così; anche se televisioni e giornali nascosero i sentimenti popolari, l’Avvocato era invidiato e non faceva nulla per farsi perdonare la sua fortuna di sardanapalo senza meriti. Così nessun dolore sincero nelle famiglie, solo retorica pubblica. Per Marchionne invece c’è una generale costernazione. Perché?



Analizzo me stesso e ciascuno è libero di negare universalità al mio sentire.

1. Marchionne è stato reciso da una malattia inesorabile, ed è morto vivendo. Mi ha ricordato l’aneddoto su san Luigi Gonzaga udito in oratorio da bambino. Se venisse un angelo a dirti che tra mezz’ora renderai l’anima a Dio, che farai? E San Luigi, giovanissimo, mentre curava gli appestati e davvero da lì a poco sarebbe morto, rispose: “Continuerei a fare quel che faccio”. Così Marchionne. Non so se avesse fede in Cristo, sono cose tra loro due a questo punto, ma mi ha colpito che non abbia un istante smesso di lavorare. Il suo dovere quotidiano. La certezza di un compito. Il sentimento che il lavoro è un rapporto con il mistero, e la vita è utile. Per cui: ammirazione e compassione per un grande che è un fratello in questa valle di lacrime e di speranza.



2. Emerge dalla dimenticanza e dall’ingratitudine la qualità del suo genio italiano. È stato trattato male perché risiedeva in Svizzera. Ci stava da prima fosse scelto per guidare la Fiat, lavorava lì, aveva risanato nella Confederazione un’azienda moribonda. E dunque perché impedirgli di stare e di pagare le tasse dove la vita lo aveva condotto? Essa aveva già sbattuto i suoi dall’Istria all’Abruzzo e poi in Canada. Era di famiglia povera. È stato un genio e ha messo il suo dono non al servizio del far soldi (anche se ha guadagnato tanto) ma per salvare la comunità di famiglie di lavoratori di cui si è trovato alla guida. Come un pioniere alla testa della carovana mentre imperversava la tempesta della crisi.



3. Era un uomo intelligentissimo e semplice in situazioni complicate. È stato spietato con i pigri e con chi vantava due cognomi e tripli stipendi ma mezza testa e tanta arroganza. E le tute blu della Chrysler e, alla lunga, della Fiat in Italia hanno compreso che teneva a loro. Non per paternalismo ma attingendo alla comune umanità. Si alzava come un monaco alle 3,30 del mattino, a letto alle 10 di sera. Ha salvato dall’annegamento due giganti in rovina prendendoli per i capelli, ne ha fatto un’unica entità dando prospettive di vita buona a 250mila famiglie. La gente capisce questo. Mica è scema.

4. Ci sono tre frasi, tra le tante, che mi colpiscono. “La vita è un concorso di bellezza”. “Se continuiamo a vivere di soli diritti, di diritti moriremo”. “L’Italia è un Paese che deve imparare a volersi bene, deve riconquistare un senso di nazione”. Logico che sia amato. E che la sua testimonianza alimenti la voglia di essere buoni.

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