L’accesso alla consultazione delle sentenze giudiziarie non è uguale alla procedura per ordinare un documento in archivio o avere un libro in lettura in biblioteca. Si fonda su un percorso in cui la speditezza vede privilegiati gli avvocati e i giornalisti. I ricercatori (universitari o meno) sono assoggettati ad un altro regime. Debbono presentare una domanda, per motivare la richiesta di accesso, al presidente del Tribunale. In generale viene concesso, anche se la disponibilità reale è legata ai tempi non di rado lunghi dell’amministrazione e ai costi del manufatto.
Questa mancanza di uniformità nel trattamento è alla base delle incomprensioni che determinano manifestazioni di giudizi assai diversificati.
Io stesso, nel commentare su queste pagine le motivazioni addotte per la sentenza sulla trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra sono incorso negli errori (quasi inevitabili, e l’ho scritto) connessi alla mancata disponibilità di un testo che consta di oltre 5.200 pagine. Organi e agenzie di stampa avevano dato una versione assai scarna e non sempre convergente del giudizio espresso il 20 aprile 2018 dalla Corte d’Assise palermitana sui rapporti tra la mafia corleonese e Silvio Berlusconi.
Su questa base avevo manifestato l’esigenza che il dott. Alfredo Montalto e i suoi collaboratori motivassero meglio il loro giudizio non limitandosi a rilievi generici o a carattere meramente deduttivistico (del tipo “non poteva non sapere”, elementi “logico-fattuali” ecc.).
Leggendo, su questo aspetto specifico, il resoconto che qualche giorno fa Il Fatto Quotidiano ha dato, traendolo dalle motivazioni, dei rapporti intercorsi tra boss, amici dei mafiosi e uomini di Mediaset e del governo, debbo dare atto ai magistrati palermitani di avere fatto un lavoro più approfondito e convincente di quanto inizialmente non sembrasse.
Berlusconi non risulta imputato di nessun reato relativo alla trattativa. Era noto, e viene ribadito, il versamento — tramite l’ex senatore Marcello Dell’Utri e Antonino Cinà — di diverse centinaia di milioni all’anno a Totò Riina e ai suoi compagni d’arme in cambio della sicurezza degli apparati televisivi installati in Sicilia.
La novità sono le reiterate manifestazioni di interesse dimostrate da Vittorio Mangano e Marcello dell’Utri (legatissimi tanto all'”onorata società” quanto all’imprenditore e uomo politico milanese) come dei boss Salvatore Cocuzza e Gaspare Spatuzza perché il governo presieduto da Berlusconi emanasse dei provvedimenti legislativi a favore dei corleonesi detenuti. Quelli a piede libero hanno fatto di tutto per intessere col nuovo premier un rapporto di scambio di favori, se non di collaborazione. Come, per esempio, la sospensione della micidiale carneficina (predisposta e tentata nel gennaio 1994 dai fratelli Graviano) a carico degli agenti di guardia allo Stadio Olimpico di Roma.
Sono elementi nuovi, ricostruiti attraverso un paziente e minuto collage di intercettazioni, dichiarazioni in sedi giudiziarie e interviste che meritano di essere esaminati con molta cura.
Credo che il giudice Montalto possa dare un contributo importante perché non debba ulteriormente lamentarsi dell’uso parziale, segmentato e quindi approssimativo che è stato fatto, a volte, del suo lungo lavoro di analisi e di ricostruzione di una vicenda per nulla facile come quella del negoziato tra poteri legali e poteri criminali.
Basterebbe che egli consigliasse al Tribunale di Palermo, come delle altre città siciliane e non (a cominciare da quelle impegnate in cause di mafia), di mettere direttamente su Internet le sentenze e le motivazioni delle medesime.
Se fossero finalmente a disposizione di tutti i cittadini, a cominciare da avvocati, giornalisti e ricercatori, si avrebbe così un testo uniforme, omogeneo. Solo a prezzo di uno spudorato spirito di fazione potrebbe essere manomesso esponendo al pubblico ludibrio chi avesse il coraggio di farlo.
La vicenda di cui Montalto si è occupato non ha avuto il sostegno (ma, anzi, la riprovazione aperta) della stampa influenzata dalla famiglia (in senso non solo politico) e dai molti e potenti media di Silvio Berlusconi. Ovviamente hanno esercitato un loro diritto e molti (come i giornalisti più corrivi) sono stati beneficiati col laticlavio per i molti silenzi, le mezze parole, le untuose o ampollose giustificazioni addotte per il comportamento non rettilineo dell’industriale lombardo.
Il Tribunale di Palermo, come quello di Caltanissetta, ha dovuto fronteggiare resistenze, pregiudizi ed esortazioni di ogni tipo a fare un falò di tutto il contenzioso in cui esponenti dell’Arma dei Carabinieri e feroci boss si sono confrontati e alla fine accordati.
Il quotidiano Il Foglio sin dal primo momento ha avviato una vera e propria campagna che è andata bel oltre una legittima moral suasion sui magistrati troppo curiosi e infaticabili. Non si è fatto scrupolo di arrivare a negare la stessa esistenza della trattativa tra lo Stato e Cosa nostra. Quando invece gli incontri e la ricerca di intese tra gli uomini del Ros (gli ufficiali Mario Mori, Antonio Subranni, Giuseppe De Donno) e i corleonesi di Cosa nostra (da Vito Ciancimino a Totò Riina e Bernardo Provenzano) sono stati un momento e un aspetto cruciale della storia repubblicana del nostro paese. Lo Stato di diritto è stato ferito, anzi squartato. Alla sua credibilità come soggetto istituzionale e riserva dell’etica pubblica è stato inferto un colpo durissimo.
Per questa ragione dobbiamo stringerci, anche nell’eventuale dissenso su singoli aspetti e personaggi evocati nella sentenza della Corte d’Assise di Palermo, attorno ai magistrati che coraggiosamente l’hanno emessa.
Ma a loro, a cominciare da un magistrato con l’esperienza, la cultura e la liberalità del dott. Alfredo Montalto, spetta fare di tutto perché l’opinione pubblica, che in uno stato liberale è rappresentata dalla stampa, dall’università e dai ricercatori, possa avere un accesso diretto alle principali carte processuali. Senza di esso è in pericolo sia la libertà di giudizio dei giudici sia la libertà di critica della società civile.