Ancora vivi! È sera in Italia quando le agenzie battono la notizia del ritrovamento dei dodici ragazzi thailandesi dispersi dal 23 giugno scorso quando, dopo il consueto allenamento di calcio, si erano avventurati con il loro allenatore nella grotta di Tham Luang. Il clima avverso e le forti piogge monsoniche li avevano isolati da tutto, apparentemente bloccati per sempre.



Ancora vivi! La novità si diffonde rapidamente, trasformando la disperazione dei genitori in gratitudine e la determinazione dei soccorritori in commozione. La grotta, i dodici ragazzi, il loro maestro, la passione del calcio: tutto in questa storia sembra essere simbolico di una giovinezza su cui in tanti si interrogano e a cui tanti guardano.



Ancora vivi! Rappresentanti di una generazione che sembra rimanere prigioniera delle proprie passioni, accompagnata da adulti che non sanno più giudicare le circostanze e ritrovare quindi la strada di casa, il grido che si innalza da quella grotta sembra come un’ultima sorprendente scoperta: sotto i macigni di una libertà innalzata a capriccio, di un mondo che tende a fare dell’essere dispersi l’ultima frontiera di una vita finalmente scevra da vincoli e obblighi, l’umanità non muore del tutto, ma sopravvive. Ed è questa la scoperta che tanti adulti fanno, a volte quasi spiazzati, verso figli, amici o studenti che — già condannati dalle nostre misure — d’improvviso mostrano con parole e gesti di avere dentro tutta una vita ancora da raccontare e da condividere, di portarsi appresso una domanda di bene e di giustizia che ancora non si è stufata di essere posta.



Ancora vivi! È questa la prima consapevolezza da cui ricominciare il rapporto con i più giovani, da cui far partire il Sinodo che la Chiesa di Roma celebrerà in ottobre: non le analisi, non i luoghi comuni, non i goffi tentativi di capire e di interpretare, ma la sorpresa di una vita che c’è ancora, di un’umanità che non soccombe sotto il peso delle nuove ideologie o del nulla diventato sistema, ma che invece lotta, si ostina, spera.

Ancora vivi! Si parla di un gruppetto di ragazzi, si parla di giovani, ma ciascuno sa quanto questa esclamazione vorrebbe fosse la propria, vorrebbe fosse la struggente eco del più sperato e temuto fra tutti i colpi di scena: quello di ritrovare, sotto i segni dell’età o sotto le tracce di una fragilità che troppe volte sembra aver preso il sopravvento, le speranze, i sogni e i desideri della nostra giovinezza. Quasi che quelle domande di dieci, venti o cinquant’anni fa fossero ancora lì, come una promessa mai sopita, come un fuoco pronto di nuovo a divampare.

Quella vita che continua sotto le macerie dunque ci sfida, ci chiede di cambiare prospettiva, punto di vista. Per riuscire a penetrare — direbbe Gaber — nel Mistero grande del cuore dell’uomo. Per riuscire a ritornare, magari in una silenziosa mattina d’estate o in un tramonto di luglio, a dialogare con ciò che siamo. E che, in fondo, non abbiamo mai smesso di essere: uomini ancora vivi in cerca di vita.