Ogni tanto qualcuno ci prova. A fare esperimenti con i bambini, intendo. Il primo, sembra, fu Federico II, nel XIII secolo. Secondo la cronaca di Salimbene di Adam infatti l’imperatore era curioso di sapere quale fosse la lingua originaria dell’umanità, così affidò alcuni neonati alle cure di un gruppo di balie, con l’ordine che non rivolgessero mai loro la parola. Il risultato? Morirono tutti, “perché non potevano vivere senza gli incoraggiamenti, i gesti, la letizia del volto e le carezze delle loro balie e nutrici”, come annota fra’ Salimbene (che forse si è inventato l’episodio o forse no, ma non è questo il punto).
Tra gli anni Sessanta e Settanta, il ruolo di cavia toccò a Bruce Reimer. A pochi mesi di vita, Bruce fu sottoposto a un’operazione di routine per la riduzione di una fimosi, ma l’intervento andò male e il piccolo ebbe il pene praticamente distrutto. Intervenne allora il dottor Money, celebrato pioniere della chirurgia transessuale, che propose ai genitori la soluzione: operiamo Bruce, lo facciamo diventare Brenda e voi lo allevate come una bambina. I genitori accettarono e si misero all’opera con convinzione. Solo che Bruce/Brenda continuava a comportarsi da maschio — preferiva i soldatini alle bambole, si azzuffava con i maschietti ed evitava le bambine, crescendo prese a innamorarsi di femmine —, fino a che, a dodici anni, il padre gli raccontò tutta la storia. Bruce scelse allora di tornare maschio, prese il nome di David, a venticinque anni sposò una donna. Lieto fine, stavolta? No, perché la vicenda aveva segnato tutta la famiglia: il padre beveva, la madre soffriva di depressione, Brian — il gemello che Bruce/Brenda/David adorava — nel 2002 si suicidò. Due anni dopo Bruce/Brenda/David lo imitò.
Infine il documentario Three identical strangers, uscito in America alla fine di giugno, racconta la storia di Robbie, Eddie e David, tre gemelli che la mamma ha deciso di dare in adozione, affidandosi a una società specializzata nel campo. E la società che cosa fa? Cerca una famiglia disposta a tenere i tre bimbi? No (e si può capire, non dev’essere facile trovarne una). Cerca tre famiglie vicine, così che i tre piccoli possano crescere insieme? Nemmeno. Anzi, due psicologi convincono l’agenzia che è una grande occasione: affidano i tre gemelli a famiglie lontane e sconosciute, di ceti sociali diversi (una benestante, una della middle class, una operaia), a nessuna dicono dell’esistenza degli altri fratelli, e avviano un grande esperimento: vedere come le differenze culturali influiscono sullo sviluppo di tre patrimoni genetici identici. Nel 1980, per caso, Robbie si iscrive al college frequentato l’anno prima da Eddie, viene scambiato per lui, pian piano viene a galla tutta la storia. Per qualche tempo i tre hanno successo, sono intervistati e vezzeggiati, aprono un locale insieme, compaiono perfino in un film di Madonna. Almeno stavolta, lieto fine? Nemmeno: nel 1995, vittima della depressione nata dalla scoperta di essere stato una cavia, Eddie si suicida.
Che dire? È una bella cosa, la scienza. È un segno della grandezza degli umani la loro capacità di scoprire come è fatto il mondo. Il bel libro appena uscito di Joel Mokyr, Una cultura della crescita, ci ricorda che la scienza si è sviluppata nel clima culturale prodotto dalla tradizione ebraica e cristiana, dalla certezza dell’esistenza di un Dio creatore buono e razionale: “L’importanza dello studio della natura fu in un primo momento legittimata dalla convinzione che esso avrebbe rivelato le intenzioni di Dio nel creare l’universo”. Ma insieme — osserva sempre Mokyr — con la potenza che la scienza mette in mano agli umani la tentazione di “giocare a fare Dio” era dietro l’angolo.
Dove sta il confine fra una curiosità stupita che vuole indagare sempre più a fondo i misteri della realtà e la presunzione di chi pensa che tutto sia lecito? Mi torna in mente la celebre espressione di Einstein, tante volte ripetuta: “La cosa più bella che noi possiamo provare è il senso del mistero: esso è la sorgente di tutta l’arte e di tutta la scienza”. Il senso del mistero, la consapevolezza che la realtà non è nostra, che ci supera infinitamente, e perciò un infinito rispetto di questo mistero che la realtà è: questo mi pare il discrimine. Non è questione di essere laici o religiosi, atei o credenti: è questione di una posizione umana, che sa rispettare quel che si trova davanti o che lo usa senza scrupoli per i propri progetti.