È passato quasi inosservato lo storico incontro avvenuto a Bari tra il Papa e i delegati delle Chiese d’Oriente per affrontare insieme la drammatica situazione dei cristiani nel Medio oriente. Mai nella storia un Pontefice era riuscito a radunare una sorta di mini-concilio ecumenico di poche ore con i rappresentanti di tutte le confessioni religiose presenti su un territorio: sarà stata l’urgenza del momento — si pensi che in Iraq i cristiani sono passati dal milione del 2003 (prima della guerra di Bush) agli odierni poco più di 200mila —, sarà stata la fitta rete di rapporti personali con tutti i leaders religiosi intessuta da Bergoglio in questi anni di pontificato o sarà stata Bari, la più ecumenica delle città italiane che custodisce le spoglie di san Nicola, ma il miracolo è avvenuto e l’iniziativa del Pontefice potrebbe non rimanere un evento isolato.
Infatti, come Francesco ha più volte ripetuto, è nel sangue dei loro martiri — più che nelle riflessioni o nelle trattative politiche — che i cristiani possono riconoscere la loro unità. Viviamo in un’epoca che il compianto cardinal Tauran, scomparso in questi giorni, non esitava a riconoscere come minacciata non da “uno scontro di civiltà, bensì dallo scontro di ignoranze e radicalismi” che impediscono la pace, il conoscersi e il riconoscersi.
Eppure qualche maligno fa notare che a Bari di “capi” se ne siano visti pochi: molti delegati o incaricati, ma nessun vero leader. Il fatto è che mai come in quest’epoca il cristianesimo si trova ad affrontare quella che san Paolo chiamava la schiavitù degli “stoikeia tou cosmou”, degli elementi del mondo, ossia di tutte quei fattori culturali che si propongono di determinare l’identità dell’Io prima della fede. San Paolo pensava ai pianeti e agli astri da cui gli uomini facevano derivare il proprio destino attraverso gli oroscopi, oggi invece sono i nazionalismi, i distintivi di etnia, genere e ruolo sociale a inficiare l’esperienza personale dei credenti, insinuando il sospetto che l’essere italiani, maschi o disoccupati sia più determinante per la persona che il riconoscimento di Cristo presente.
La questione è quanto mai urgente: che cosa determina di più questo momento storico? Quale fattore dice di più chi sono? Che cosa “pesa” di più nel mio affronto della realtà? C’è un’intera generazione di cristiani che sostiene, implicitamente o esplicitamente, che ciò che oggi dice chi siamo sia l’appartenenza ad una patria o le circostanze che viviamo, quasi che pesasse molto di più essere russi, francesi o soli piuttosto che l’essere uomini salvati: l’esperienza della fede è debole perché non incide nella consapevolezza dell’io, resta un qualcosa di aggiunto a quello che fa di me “Me”, rendendo il determinismo più letale per la fede che lo stesso relativismo.
È per questo determinismo, infatti, che si ritiene che la fede non basti di fronte ai problemi del mondo, che spetti alle scelte della politica “mettere a posto la storia”, perdendo completamente di vista chi sia il vero “protagonista della storia”. Abbiamo bisogno di un’esperienza così familiare della presenza di Cristo che un uomo, un occidentale dei nostri giorni, arrivi a riconoscere il proprio Io come coincidente con un Tu che lo fa. Senza questa “scoperta radicale” prevarranno sempre altri fattori, altri calcoli, altri interessi. Mentre i cristiani nel Medio oriente muoiono. E la fede si riduce ad una pericolosa ideologia cui l’uomo vestito di bianco cerca di rispondere con la sola arma del Vangelo.