Meraviglioso. Meravigliosa, la storia di Martina Natale e delle sue compagne di classe. Lei, dopo due anni di lotta contro il tumore, non ce l’ha fatta: il 12 giugno, alla vigilia della maturità tanto desiderata, è morta. Ma le sue compagne hanno raccolto il testimone: hanno studiato la tesina che lei aveva preparato — aveva studiato fino all’ultimo fiato, fino all’ultimo aveva incoraggiato le compagne, le aveva incitate a essere liete, a godersi la vita — e l’hanno presentata alla commissione. Che, commossa, ha consegnato alla famiglia di Martina una sorta di diploma ad honorem, e ha promesso che cercherà di convincere il ministero a riconoscerle la maturità alla memoria.



Lancio la provocazione: che bella cosa, la morte. Perché è solo con la morte davanti che scopriamo che grande cosa è la vita. Lo aveva spiegato Steve Jobs a Stanford: “Quando avevo 17 anni lessi una citazione che suonava più o meno così: ‘Se vivrai ogni giorno come se fosse l’ultimo, sicuramente una volta avrai ragione’. Mi colpì molto e da allora, per gli ultimi 33 anni, mi sono guardato ogni mattina allo specchio chiedendomi: ‘Se oggi fosse l’ultimo giorno della mia vita, vorrei fare quello che sto per fare oggi?’. E ogni qualvolta la risposta è ‘no’ per troppi giorni di fila, capisco che c’è qualcosa che deve essere cambiato. Ricordarsi che morirò presto è il più importante strumento che io abbia mai incontrato per fare le grandi scelte della vita. Perché quasi tutte le cose — tutte le aspettative di eternità, tutto l’orgoglio, tutti i timori di essere imbarazzati o di fallire — semplicemente svaniscono di fronte all’idea della morte, lasciando solo quello che c’è di realmente importante”.



Di quel discorso, tutti ripetono “Stay hungry, stay foolish”; nessuno ricorsa il passaggio sulla morte. Perché viviamo nell’epoca della censura della morte: non si nomina, non si cita, non si guarda. Non si portano i bambini ai funerali. I genitori chiedono alle maestre di dire ai figli che è morto il nonno perché loro non sanno come fare. Che peccato. È inutile che ci lamentiamo che i nostri ragazzi non sanno apprezzare la vita se neghiamo loro l’esperienza della morte. Perché non c’è come la familiarità con la morte per apprezzare la vita. Lo scriveva il grande Ungaretti: “Un’intera nottata / buttato vicino a un compagno / massacrato / con la sua bocca / digrignata / volta al plenilunio / con la congestione / delle sue mani / penetrata / nel silenzio /  ho scritto / lettere piene d’amore / Non sono mai stato / tanto / attaccato alla vita”.



Cerchiamo di costruire una realtà fasulla, in cui la morte non c’è. Ma la morte c’è, e si riprende il suo spazio. E, per chi la guarda negli occhi, come han fatto le compagne di Martina, la vita acquista un altro sapore. Che bella cosa la vita, quando sappiamo guardare negli occhi la morte.