La gente ustionata sul raccordo autostradale di Bologna per essersi attardata a scattare selfie con il camion in fiamme o addirittura per essere uscita dal bar sottostante per riprendere la scena, ha certamente peccato di leggerezza. In pari modo, il giovane che alla stazione di Piacenza decide di scattarsi un selfie dinanzi ad una donna finita sotto un treno e soccorsa dal 118 ha peccato invece di indifferenza (e forse anche di stupefacente disumanità). 



Tali situazioni sono entrambe paradossali e si potrebbe perfino ignorarle se non si restasse sorpresi per la loro siderale distanza da quanto stava realmente accadendo. Così il carabiniere che urlava di allontanarsi temendo la terribile esplosione si imbatte in gente che non viene affatto presa dal panico, ma preferisce restare a filmare la scena e obbedisce di malavoglia ai suoi ordini, “allontanandosi lentamente”, ha detto il militare. Questa capacità di sentirsi esterni alla situazione tanto da poterla filmare o addirittura da poterla mettere come sfondo alla propria immagine fotografica è rivelatore di una dinamica che è molto meno banale di quanto non si creda.



Ciò che va considerato non è infatti il gesto in sé, quanto il prevalere dell’attenzione a ritagliarsi il ruolo di spettatore rispetto a tutti gli altri istinti umani che invece dovrebbero prevalere: l’incolumità nel caso del raccordo di Bologna e la pietà per la vittima in quello della stazione di Piacenza. 

Emerge così — e si rende estremamente visibile — una logica del primato dell’istante da cogliere e da immortalare per poter dire “io c’ero”, guadagnandosi così qualche istante di interesse in quanto presenti sul luogo del fatto. Il selfie, per di più, testimonia anche la propria abilità e il proprio tempismo. Dietro ogni selfie c’è il primato di un’occasione che, in fondo, si è saputo cogliere e che comunque dà prova di una buona inquadratura che si è stati capaci di realizzare. E se la vita non ha nulla da dire e non ci sono altro che le singole occasioni da cogliere, il selfie documenta la propria abilità nel saperlo fare, costituendo così una qualità oggettiva che chi scatta sente di possedere e che, attraverso lo smartphone, si premura di diffondere e condividere in tempo reale.



Pensare a farsi un selfie in casi come questi può allora rivelare una mancanza totale di empatia con il luogo e la situazione. Ci si tira fuori, si diviene spettatori e si documenta quanto accade prima di ogni altro sentimento, prima di ogni altra emozione. La vita si raccoglie in una lunga serie di attimi, da immortalare e archiviare. Non c’è alcunché da capire, è sufficiente esserci. 

Così anche quando non ci sono eventi di cronaca ma quiete escursioni turistiche, la volontà di capitalizzare i transiti nei diversi luoghi attraverso la testimonianza del selfie diventa una vera priorità che non ammette deroghe. Così può accadere che due turiste si prendano a schiaffi al centro di Roma per l’accesso ad una posizione particolarmente ambita dalla quale potersi scattare un selfie con la fontana di Trevi sullo sfondo. Come se ciò potesse veramente consentire di catturare qualcosa di questo monumento al di là della conferma di sé, del proprio esserci. 

Anche in questo caso, per chi si scatta il selfie non c’è nulla dietro il fatto in sé, che non sia quello della propria presenza a fontana di Trevi. In fondo basta guardarla, ed il selfie serve proprio a documentare un tale incontro, fornendo la prova dell’esserci stati e dell’aver visto questo capolavoro del barocco: tanto basta. Qualsiasi altro approccio è semplicemente inutile. In un mondo dell’eterno presente, cogliere gli attimi, riprendere fatti e costantemente fotografarsi sembra essere l’unico modo ragionevole di porsi dinanzi alla realtà della quale abbiamo perso da tempo il senso.