Tutto parte da una pubblicità. Il marchio di abbigliamento americano Gap prepara una campagna dal titolo “Back to school”, immortala un gruppo di ragazzini festanti e tra loro ne veste una con il velo. L’irrompere del costume tradizionale dell’islam in una campagna pubblicitaria apre dibattiti e discussioni, soprattutto in Francia. È l’ala conservatrice di En Marche!, il partito di Macron, e gli esponenti dei Repubblicains a partire all’attacco di una scelta che a loro dire ghettizza la ragazzina, viola la laicità e bypassa il diritto sacrosanto dell’infante ad autodeterminarsi. Seguono posizioni ancor più ferme, tutte tese a riconoscere nei lineamenti della protagonista sul cartellone il suo presunto disagio, la sua presunta stigmatizzazione, il presunto sopruso perpetrato ai danni della sua libertà. Chi scrive sa bene che, oggi ancor più di qualche anno fa, è difficile definire in modo chiaro che cosa sia giusto o sbagliato, e che su questi temi si rischia di reiterare frasi fatte, luoghi comuni, posizioni che non aiutano a fare un passo, ma che riconfermano semplicemente i pregiudizi di chi legge. Per questo è utile mettere in fila alcune convinzioni certamente opinabili, ma che sono oggi forse indispensabili per ricostruire uno spazio pubblico significativo di riflessione e di azione condivisa:
1. la laicità di uno Stato non consiste nella sua neutralità, ma nella stima da parte dello stesso Stato di tutte le esperienze di identità, di tutte le tradizioni culturali presenti sul suo territorio;
2. uno Stato laico è dunque uno Stato che permette a tutte le identità di esprimersi;
3. l’espressione di un’identità culturale è destinata ad incontrare le espressioni delle altre culture;
4. si crea nella società, pertanto, un perimetro di incontro, scontro, scambio che deve avere come obiettivo quello di elaborare un’etica pubblica comune su un dato problema;
5. questo non accade una sola volta, ma accade potenzialmente in ogni ambito in cui ci possano essere visioni del mondo o tratti distintivi diversi che necessitano di incontrarsi (a scuola, sul lavoro, in politica, nei quartieri);
6. il compito di uno Stato non è né salvaguardare una propria posizione preconcetta, ammantandola di imparzialità inesistenti, né parteggiare per una visione del mondo a scapito di un’altra: il compito dello Stato è di esortare in ogni modo al dialogo, all’incontro, alla sintesi;
7. la libertà dell’individuo non si tutela impedendogli di appartenere ad una storia (un bambino non lo si rispetta impedendogli di essere battezzato o di portare il velo), bensì supportandolo nella verifica della storia in cui è stato immesso, aiutandolo nel paragone incessante tra le domande del proprio cuore e le scelte intraprese;
8. i due grandi pilastri di questa società 3.0 sono quindi l’azione politica, intesa come tentativo di creare spazi di incontro e di confronto a tutti i livelli e in tutti gli ambiti della società, e l’azione educativa, intesa come trasmissione di un metodo con cui poter giudicare tutto a partire dalla propria umanità.
Non è decidendo a priori che cosa sia giusto o sbagliato che si educa un popolo: non lo è stato ieri negli Stati islamici che imponevano la shaaria, non lo è stato ieri l’altro nel mondo cristiano che traduceva in legge le conquiste del Vangelo, non lo è oggi nel mondo post-moderno che rende i pregiudizi escludenti il sacro il cardine del vivere comune. Un popolo si educa permettendogli tutto lo spazio di esprimersi, offrendogli tutte le occasioni di incontrarsi e promuovendo tutte le possibilità di appropriarsi di un metodo che ravveda nella stima verso sé, verso la propria umanità, il vero discrimine, la premessa, di ogni giudizio.
In un momento della storia in cui tutto deve essere veloce, è la forza del tempo che rappresenta per la libertà del singolo, per le scelte che essa opera, il più arguto e decisivo banco di prova. Occorre tornare a fidarsi dell’umano, di una madre che battezza un figlio, di un padre che mette il velo alla figlia. Senza credersi migliori, senza pensare di sapere come andrà già a finire. Semplicemente scommettendo che, superata ogni nostro buonismo ipocrita, ci possa essere la possibilità di scoprire ancora una volta insieme tutta la forza del vero, tutto ciò che ci possa aiutare sul serio a rimanere umani. Perfino la strana provocazione di un cartellone pubblicitario. Perché oggi è schiavo solo chi, in fondo, ha paura della libertà dell’altro. Della strada che l’altro deve fare per incontrare me, per trovare, con me, un bene che abbia la dignità e la bellezza di meritare di essere tramandato.