Sono struggenti, le storie delle vittime del crollo del viadotto di Genova (ma quali storie umane non lo sono?). I due promessi sposi di Pisa, la famiglia di Voltri in partenza per la Sardegna, i dipendenti della nettezza urbana che “dopo mesi di disoccupazione avevano trovato un contratto stagionale ad Amiu ed erano felici”, scrive La Stampa, il camionista rumeno e il capotifo del Genoa, il cuoco cileno… Molti dei loro familiari hanno detto no ai funerali di Stato, hanno scelto cerimonie private. Il funerale dei promessi sposi di Pisa si è svolto nella chiesa dove avrebbero dovuto celebrare il matrimonio. Intorno ai quattro ragazzi di Torre del Greco si è stretta tutta la città, sono stati l’occasione di invettive contro uno Stato percepito come assente, nemico. Se capisco bene, la decisione di esequie private non è tanto una scelta di protesta, quanto il desiderio di dare al dolore una cornice più riservata. Non posso non condividerla. Anche perché, nel caso di Genova, l’opera di sciacallaggio delle autorità sui cadaveri è stata particolarmente odiosa.
E perciò questa volta, a differenza del solito, mi schiero. Perché questa volta la colpa non è dello “Stato”, o perlomeno non solo. Questa volta la colpa, una bella fetta di colpa, è di quelli che allo Stato addebitano tutte le colpe. Il presidente della Confindustria genovese, Giovanni Calvini, lo aveva detto nel 2012: “Quando tra dieci anni il ponte Morandi crollerà e tutti dovremo stare in coda nel traffico per delle ore ci ricorderemo il nome di chi adesso ha detto no alla Gronda”. Perché che il ponte fosse in difficoltà si sapeva da tempo. Perché un progetto per togliere da lì il traffico c’era da tempo: la Gronda, una grande tangenziale che avrebbe deviato il traffico pesante su una strada nuova. Ma la Gronda aveva i suoi nemici. Con tanto di nome e cognome. Uno su tutti: Beppe Grillo. Che in un comizio del 2014 aveva dichiarato: “Dobbiamo chiamare l’esercito contro quelli che vogliono fare la Gronda!”. Beppe Grillo e i 5 Stelle, che in una pagina Internet — frettolosamente rimossa, ma la rete non dimentica — definivano il rischio del crollo del ponte Morandi “una favoletta”.
Se fosse una persona seria, Di Maio avrebbe dovuto dimettersi. O perlomeno chiedere scusa. Non dare la colpa a Benetton, non cianciare di “revocare la concessione ad Autostrade“, ma riconoscere le responsabilità del suo partito. Riconoscere che non si risolvono i problemi di un Paese dando sempre la colpa agli “altri”, ma ammettendo i propri errori e dicendosi disposti a cambiare. È troppo facile limitarsi sempre alle accuse, il problema è costruire. Allora, uomini di Stato degni di questo nome avrebbero a Genova una grande occasione: riconoscere che hanno sbagliato, cogliere l’opportunità per abbandonare una politica che demonizza l’intrapresa, la costruttività, le opere, e abbracciarne una che le valorizzi e le indirizzi al bene comune. I nostri uomini di Stato ne saranno capaci?