Al Meeting di Rimini, il 21 agosto scorso, si è tenuto un incontro molto significativo coordinato da Giorgio Vittadini, al quale partecipavano Veronica Cantero Burroni, scrittrice argentina sedicenne e Paola Cigarini, responsabile, a San Salvador in Brasile, di un centro educativo per bambini economicamente svantaggiati. Il titolo dell’incontro era “Essere felici si può. Testimonianze”. Secondo un certo modo di pensare “felici” non sarebbe il termine più adatto, ma quello di cui hanno dato testimonianza le due partecipanti è che si può vivere una  vita piena seppure in circostanze di dolore fisico — come per Veronica affetta da paralisi cerebrale — o in situazioni economiche “perse in partenza” — le favelas dove opera Paola. Il dolore e le difficoltà non sono negate ma vengono vissute appieno, non in termini intellettuali ma sulla propria pelle, solo così l’esperienza si traduce in autorevolezza. Per questo il titolo dell’incontro specifica “Testimonianze”, come Vittadini ha tenuto a precisare durante la presentazione. 



Ann Ulanov, una professoressa di psichiatria e religione a New York, affermava che la fede cambia l’atteggiamento dell’individuo, in quanto fa sì che costantemente osservi quello che gli accade intorno rapportandolo alla presenza dell’Altro: “a calling into the presence of God”.  È questo aspetto che colpisce quando la giovane Veronica ci parla del suo dialogo fluido con Dio, col quale si confronta costantemente, trasmettendoci la sua accettazione della malattia. Per la maggior parte di noi questo genererebbe rabbia o disorientamento come per Giobbe e il suo dolore. Veronica parla invece della capacità di sognare — l’occhio di vetro al quale fa riferimento citando Papa Francesco — che le ha permesso di trasformare la malattia e la sua immobilità nella possibilità di osservare e quindi scrivere. 



Questi processi di trasformazione ci lasciano sempre il sapore del miracolo o della grazia, che dir si voglia. Ovviamente prima bisogna passare per l’accettazione ed è su questo terreno che ci scontriamo con tutte le nostre resistenze. Il dolore è parte della nostra esistenza, rifiutandolo lo rendiamo più grande di quello che è. È necessario un altro modo di guardare alle cose e non vi è bisogno di cercare lontano, si comincia da dove si è, come ci ha ricordato questa giovane ragazza.

Dopo l’intervento di Veronica non era chiaro se la testimonianza di Paola potesse avere la stessa intensità. Cosa altro poteva dire? E invece è stata ugualmente significativa. Di nuovo, seppure da un angolo diverso, abbiamo potuto percepire la sua capacità di osservare, di essere presente, e l’agilità che porta alla trasformazione dei problemi. Paola ci ha ricordato come nel mondo occidentale uno parte la mattina con un piano di sei cose che deve fare; cinque le compie, ma la sesta gli riesce, e questo genera una immensa frustrazione. “Veniamo da una storia dove siamo abituati a manipolare la realtà” ha detto. 



Operando nelle favelas, di fronte alla costante fragilità, Paola ha dovuto imparare un altro modo di vivere, dove non vi è solo il piano A, ma anche il piano B, C fino alla Z. Quando un ragazzino del Centro educativo si era dimostrato insopportabile, “ne combinava una tutti i minuti”, Paola aveva escogitato un’attività che riuscisse a interessarlo: lo aveva reso responsabile insieme a un altro compagno di un torneo di calcio per i più piccoli. L’iniziativa aveva avuto tanto successo da essere allargata, facendo sì che lo sport diventasse parte fondamentale delle attività del centro e i ragazzi imparassero l’importanza delle regole. Successivamente si sono create persino delle squadre sportive, che competono con quelle delle scuole frequentate dai figli dei “milionari”. Nonostante il successo, però, non si risolve il problema della discriminazione verso questi ragazzi, poveri e di colore, come ci ricorda Paola. Ci si potrebbe domandare allora, perché tutto questo lavoro? 

Un senatore americano, visitando la casa dei morenti a Calcutta, aveva chiesto a Madre Teresa come potesse sopportare quel peso senza farsi schiacciare. Lei aveva risposto: “Siamo chiamate a essere fedeli non persone di successo”.