Per il credente nella Bibbia ogni morte è un delitto perché è conseguenza del peccato originale e quindi assente dal piano originario di Dio. Ma nessuna morte è un delitto come sopravvivere alla propria progenie.
A Pagani, provincia di Salerno, si consuma la tragedia di una madre che torna a casa e trova la figlia morta. Lei è un’infermiera di sessantotto anni, la figlia era una ventisettenne. Si pensa che si tratti di un duplice suicidio. Stando a una prima ricostruzione dei carabinieri del reparto territoriale di Nocera Inferiore, la madre, dopo aver trovato la figlia senza vita, si è lanciata nel vuoto. Secondo il sindaco di Pagani, Salvatore Bottone, la famiglia era un nucleo disagiato ed era già seguita dai servizi sociali del Comune. In particolare, la ragazza era presa in carico anche dal centro di salute mentale. A peggiorare il quadro c’è l’apparente assenza di motivazioni perché il sindaco descrive i membri di questo nucleo familiare come persone perbene.
Il Vangelo descrive il dolore di una madre che perde la figlia come inconsolabile. “Un grido è stato udito in Rama; un pianto ed un lamento grande: Rachele piange i suoi figliuoli e ricusa d’esser consolata, perché non sono più” (Mt 2,18). Quando, come sacerdote, mi capita di incrociare questo dolore, la prima cosa che cerco di fare è di non incrociarlo, di non vederlo, di scappare da un’altra parte, di cercare un’altra strada che mi permetta di evitare gli occhi di quella mamma “orfana di figlia”, di quel dolore che non si sa come chiamare perché un figlio senza madre si chiama “orfano” ma una mamma senza figlia non ha nome, non si chiama, non si sa come dire perché la lingua si inceppa.
Però poi da quel dolore non scappo, e allora sto. La madre mi guarda, un po’ mi crede colpevole di quella tragedia, e io — io prete — devo stare bene attento a non dire nulla. A stare. A stare lì, a stare solo lì.
Se un figlio parla della morte dei propri genitori ha, come consolazione, il ricordo di tutto il bene ricevuto. Se una madre parla della morte di una figlia — soprattutto se, come sembra, la figlia è morta suicida — ha, come dolore in più, come disperazione ulteriore, il rammarico di tutto il bene che lei come madre non ha fatto. Lei, la mamma sopravvissuta, di bene ne ha fatto di certo tanto, ma l’unico che le sovviene è quello che non ha fatto. Che nella sua immaginazione poteva fare e non ha fatto. E sappiamo che, in questi casi, l’immaginazione immagina cose impossibili, gira il coltello in ferite che divengono voragini sanguinose.
Il modo migliore per amare una persona, tu dici, è amarla. Nessuna tattica, solo amore. Attenderla, darle un appuntamento e poi attenderla. E io quella volta non l’ho fatto, in quella circostanza non l’ho aspettata. Il modo migliore di stimare una persona è stimarla. Nessuna tattica, solo stima. Parlare bene di lei, parlarle del bene, volerle bene per quello che è. E invece io, due mesi fa, ho parlato male di lei, e poi, con lei, mi sono pure lamentata. Il modo migliore di stimolare sentimenti buoni, virtù, desideri di bene, di vivere, in una persona, è vedere già in lei bontà, virtù, bene, vita, voglia di vivere e di lottare. Questo è quello che dovrebbe fare ogni buona madre e invece io non l’ho fatto. Forse, certo, un po’ l’ho fatto, ma troppo poco. Non è bastato. Non ho atteso, non ho sperato, non ho benedetto, non ho visto il bene, ho solo voluto strappare la zizzania, i suoi difetti, non ho goduto del grano, del bene. Per questo mia figlia si è suicidata. Per questo mia figlia non ha risposto. Per questo non ha camminato, non è andata, non è arrivata. Non è arrivata alla vita. È arrivata, prima, alla morte. E adesso è lì che mi attende. E io vado da lei. Muoio anch’io. Mi suicido.
Ecco: ho scritto dei pensieri possibili passati nel cuore di quella mamma. Forse non saranno proprio quelli, ma forse non saranno molto diversi. Nessuno confermerà, nessuno smentirà. Maria accoglierà.