Per il bambino abbandonato a Terni da una donna di 27 anni, incensurata e con alle spalle una storia di sofferenza e difficoltà economiche, le autorità hanno proposto un minuto di silenzio. Pensando al corpicino esanime lasciato per ore di fronte al supermercato la reazione più umana che mi viene in mente è proprio il silenzio: è la preghiera più profonda quando sei immerso nel mistero del dolore. È la pena per questo bambino ma anche la pena — profondissima — per questa madre che ha pensato all’abbandono come unica via d’uscita. La donna rischia 12 anni di carcere perché tecnicamente è infanticidio anche se lei, evidentemente, quando ha lasciato il bambino, vivo, nel sacchetto, non voleva morisse: non l’ha abortito e sperava che qualcuno se ne accorgesse e lo salvasse visto che lei non si poteva permettere “un altro figlio”.
La donna, già madre di una bambina di due anni, ha tenuto nascosto la gravidanza ai familiari e ha partorito da sola in bagno tagliando il cordone ombelicale nel bidet. Questi particolari raccontano da soli la situazione di degrado estremo della povera donna. Degrado, povertà, forse anche droga. È ciò che ha impedito a questa poveretta di venire a conoscenza di una cosa nota a tutti: e cioè che in Italia è possibile partorire in ospedale nel più totale anonimato e lasciare il bimbo al sicuro affinché venga adottato.
Questo infatti era certamente il desiderio della donna. Lo fa capire la scelta di abbandonare il sacchetto davanti a un supermercato, cioè dove era grande la probabilità che il bimbo venisse trovato. E infatti il rinvenimento è avvenuto: ma troppo tardi perché il sacchetto era troppo chiuso e il bimbo è morto soffocato.
La povertà rende crudeli e ciechi, pieni di paure, e ci dice molto sulla nostra civiltà. Siamo sempre più soli, sempre meno attenti all’accudimento, non solo della vita nascente ma anche della vita. In generale. Di tutta la vita. Una signora mi raccontava che nessuna la aiutava per le coliche del suo neonato e si è sentita talmente disperatamente sola, schiacciata dall’angoscia di quei pianti che lei non sapeva curare, da dover urlare il suo dolore e la sua impotenza su Facebook. Perché si sentiva sola. Facebook, capite? Questa è la solitudine.
Immagino quale grado di solitudine e di angoscia abbia potuto attanagliare questa 27enne in una situazione tanto più drammatica. Non vedo come sia possibile nascondere una gravidanza per nove mesi a un compagno: l’unica possibilità è che davvero non ci sia nessuno che ti guardi, nemmeno il tuo compagno. Quale genere di compagnia può offrire un compagno che non si accorge che la donna con cui vive aspetta un bimbo, lo partorisce in un bagno, taglia da sola il cordone ombelicale, pulisce il sangue sempre da sola, ed esce tremante con un sacchetto in mano?
La scelta del supermercato parla da sola. La donna non ha scelto, come accaduto altre volte, un cassonetto, un luogo al riparo dagli sguardi come un bagno pubblico, un camerino di prova di un negozio, ma il luogo del via vai per eccellenza, dove tantissima gente compra e passa. Sperava che il bimbo fosse trovato quasi subito, non appena lei, posato l’involto, si fosse dileguata. E c’è veramente da fermarsi, di fronte all’immagine di questo bimbo senza vita, su come portiamo avanti una cultura di relazioni spezzate e “atomiche”, all’insegna del mordi e fuggi, della deresponsabilizzazione, della superficialità.
Spero che la donna non sia punita con 12 anni di carcere. Non credo che la galera, un altro luogo di isolamento e deprivazione, possa veramente far del bene a questa donna che ha un figlio. Forse le potrebbe giovare essere coinvolta in un progetto sociale che magari si occupi proprio di bambini. Ma anche e soprattutto delle loro mamme. Affinché nessuna decida di privarsi della propria creatura perché ha paura del domani e si sente sola.