Che il Belpaese sia diventato brutto per lo scadimento dei costumi pubblici e privati — scarso senso civico, incompetenza diffusa, maleducazione e aggressività del dibattito pubblico, piccola corruzione diffusa, che piccola personalmente non direi viste le evidenze della cronaca che hanno toccato i piani alti dell’economia e della finanza, dalle banche in giù —, come Galli della Loggia scrive nel suo ultimo editoriale sul Corriere della Sera, non so se sia la chiave giusta per dar conto di un Paese che non ci piace, del perché e come lo sia diventato. A seguito cioè, secondo Galli, di “una frattura intervenuta nel costume degli italiani, che ha inevitabilmente modificato anche la qualità della cultura civica della Penisola e quindi di tutta la nostra vita collettiva a cominciare dalla vita politica; il cui degrado non comincia a Montecitorio, comincia quasi sempre a casa nostra”.
Messa così rischia di essere, questa percezione di un Paese che non ci piace, una percezione di élite; fondamentalmente intellettuale e, buttandola sulla critica di costume, alla fin fine assolutoria dei livelli di responsabilità vera di questa Italia “scostumata” degli ultimi venti o trent’anni. E per certi versi anche autoassolutoria, se la domanda diventasse dov’era questo sguardo delle élites, quando in questi decenni veniva meno il ruolo delle “quattro fondamentali agenzie di socializzazione: la Chiesa, la leva militare, la scuola e la televisione pubblica”, strategiche per formare, secondo Galli della Loggia, costumi pubblici e privati degli italiani.
A me sembra che la questione vera è che questo Paese è diventato brutto agli occhi degli italiani non per motivi di costume — materia elettiva di una critica della cultura più o meno adeguata ai tempi che vuole leggere —, ma per motivi di disagio sociale ed economico. La maleducazione, l’aggressività, l’avallo all’incompetenza gridata sui problemi più che a discorsi razionali sulle loro soluzioni, sono arrivati nelle case degli italiani dopo e a ridosso di questo disagio che le élites del Paese, a cominciare da quelle politiche, non hanno saputo leggere e interpretare, quando pure si siano poste il problema. E che agli italiani non piaccia il Belpaese, in questo senso e non per fatti di costume, lo si è capito nelle urne del 4 marzo, quando fondamentalmente due terzi degli Italiani hanno detto basta, in modo se si vuole anche equivoco e senza fare le dovute differenze (a cominciare dal fatto che ad esempio la Lega di Salvini era lì fin dall’inizio della seconda repubblica), alla politica e alle élites che nei decenni che costruivano il loro scontento li hanno governati.
Il Paese che c’è, è questo qui — arrabbiato, impaurito, malmostoso, vendicativo e scostumato, come scrive Galli della Loggia; e nella politica che ha espresso, legge con compiacimento (almeno finora, stando al trend dei sondaggi) se stesso. Ma lo specchio in cui si guarda questo Paese non se lo è costruito da sé, e il ruolo delle élites, più che dire al popolo che non sta dando un bello spettacolo (questo sarebbe piuttosto necessario dirlo con forza a chi ne rappresenta al governo gli umori senza alcuna responsabilità di mediazione anche “pedagogica”), sarebbe quello di indicare in quali modi riconciliare gli Italiani con se stessi, riprendendo il filo del loro passato migliore. E poiché nell’ultimo decennio gli italiani poveri sono passati da tre a cinque e passa milioni, io comincerei da lì.
Almeno una delle agenzie strategiche di socializzazione richiamate da Galli, la Chiesa cattolica, con Francesco sta provando a farlo. E restando in tema, chiuderei con la seconda lettera di San Giacomo che si è letta nella liturgia domenicale di ieri: “Fratelli miei, la vostra fede nel Signore nostro Gesù Cristo, Signore della gloria, sia immune da favoritismi personali. Supponiamo che, in una delle vostre riunioni, entri qualcuno con un anello d’oro al dito, vestito lussuosamente, ed entri anche un povero con un vestito logoro. Se guardate colui che è vestito lussuosamente e gli dite: ‘Tu siediti qui, comodamente’, e al povero dite: ‘Tu mettiti là, in piedi’, oppure: ‘Siediti qui ai piedi del mio sgabello’, non fate forse discriminazioni e non siete giudici dai giudizi perversi?”.
Ecco, supponiamo; e spingano le élites di politica e governo alla socializzazione suggerita da San Giacomo più di quanto lo abbiano fatto negli ultimi decenni. Forse riavremo, alle condizioni di oggi, l’Italia migliore di cui giustamente Galli della Loggia ha nostalgia.