C’è una frase che ha resistito agli anni e ai proiettili, sopravvissuta pure all’uomo che l’ha pronunciata:”Se ognuno fa qualcosa, allora si può fare molto”. Chiamatelo slogan, fatene un motto, scegliete voi l’espressione più giusta, ma è forse questa l’eredità lasciata in Terra da quel martire contemporaneo che fu padre Pino Puglisi, il prete che sfidò la mafia e per questo motivo morì assassinato nel giorno del suo 56esimo compleanno. Aveva capito, il parroco di don Gaetano, nel quartiere Brancaccio di Palermo, che l’unione fa la forza anche contro una criminalità (ben) organizzata come quella mafiosa. E allora ecco svelato l’arcano, il modo per non avere più paura, per non sentirsi soli davanti ai soprusi e alle ingiustizie, dinanzi alle intimidazioni e alle minacce: fare ognuno qualcosa, e allora sì, che si può fare molto. (agg. di Dario D’Angelo)



Don Pino Puglisi, il prete che sfidò Cosa Nostra

Si celebrano oggi, 15 settembre, i 25 anni dalla morte di don Pino Puglisi, parroco di san Gaetano, quartiere Brancaccio di Palermo, e simbolo della lotta contro la mafia. La città siciliana si unirà nel ricordo del grande sacerdote, che non guardando in faccia alle logiche di potere di alcun tipo, mafiose o politiche, ha deciso di combattere con le sue sole forze la criminalità. La cultura legata alla mafia però non è stata sconfitta secondo Pino Martinez, amico e collaboratore del prete conosciuto con il nomignolo affettuodo di 3P, per via delle tre lettere legate al titolo padre Pino Puglisi. La prossima domenica anche papa Francesco si recherà a Palermo per commemorare l’opera fatta dal sacerdote, raggiungendo il quartiere che ha vissuto la sua opera ed infine la sua uccisione. A Brancaccio infatti non c’era solo don Pino a governare la comunità. L’altro lato della medaglia prevedeva il controllo dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, individuati come i possibili mandanti del suo omicidio. “Nelle prediche, a messa, parlava contro la mafia e la gente sentiva questo suo fascino“, riferirà in seguito, come ricorda Il Fatto Quotidiano, il sicario dei Graviano, Salvatore Grigoli. Don Puglisi era quindi un problema e soprattutto si credeva che il Centro Padre Nostro, creato dallo stesso sacerdote, fosse in realtà un covo di poliziotti infiltrati. Solo in seguito al delitto si è scoperto che il sospetto era infondato. La colpa di Puglisi, se così si può chiamare, è in realtà di aver ridato vita ad un quartiere abbandonato da tempo nel degrado più estremo. Niente presidi sanitari, nessuna scuola. Persino le fogne non funzionavano. Per questo il parroco, subito dopo il mandato ricevuto dalle alte sedi del Vaticano, ha deciso di creare il centro per impedire che i ragazzi del quartiere finissero nelle mani della mafia e quindi del crimine. 



La beatificazione di don Pino Puglisi

Oggi Beato, don Pino Puglisi rappresenta uno dei martiri che ha donato la sua vita alla Chiesa ed alla lotta contro la mafia. La sua volontà di togliere reclute giovani alla criminalità organizzata avrebbe provocato la sua morte. Alcuni mafiosi, durante il processo per il suo delitto, affermeranno infatti che è stata questa la miccia ad attivare i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano ed a convincerli di ordinare il suo omicidio. All’epoca, dice Gian Carlo Caselli, ex procuratore di Palermo, nessuno dei sacerdoti della città osava parlare di mafia. L’unico era don Pino Puglisi, il prete rivoluzionario ucciso il 15 settembre del 1993 e che con la sua morte ha fatto uscire forse dall’ombra la stessa Chiesa. Si ricorda infatti il discorso che il 9 maggio successivo all’omicidio del sacerdote è stato tenuto da Giovanni Paolo II, un monito diretto ai mafiosi, invitandoli alla conversione. “In realtà però è lui che ha vinto con Cristo risorto“, ha sottolineato di recente papa Francesco, parlando di come la mafia non sia riuscita a sconfiggere Puglisi e la sua missione di sottrarre i ragazzi alla criminalità. Nel ’90, quando Puglisi viene incaricato di guidare la parrocchia di San Gaetano, è consapevole delle condizioni in cui vive il quartiere Brancaccio. Le cosche mafiose sono gli imperatori di un territorio fratturato anche dalla microcriminalità e questo lo mette subito all’opera nella società. La sua lotta aperta e dichiarata dal pulpito della chiesa in cui tiene i suoi sermoni, irritano presto i piani alti della mafia. Non si tollera che quel sacerdote colpisca ai fianchi dell’organizzazione malavitosa, che convinca i ragazzi a non unirsi a determinati ranghi. E che persino porti a casa dei risultati importanti, sottolinea Famiglia Cristiana, anche nelle zone in cui la cultura mafiosa è fin troppo radicata.

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