Non è facile essere Giancarlo Lorenzetto. Avere cinquantacinque anni, fare l’autotrasportatore ed aver seguito il Ponte Morandi di Genova nel suo crollo, precipitando nel vuoto per quaranta metri dentro la cabina del suo tir, rimanendo illeso. Non è facile, non tanto per il fatto di essere sopravvissuto — un fatto quasi impossibile, ma percentualmente probabile direbbe un razionalista — quanto per il fatto di trovarsi di fronte ad una domanda spiazzante, del tutto assente dalla retorica delle grandi domande del nostro tempo: perché le cose continuano?
La cosa più stupefacente, infatti, non è che un ponte crolli e che la morte invada un’intera città con la sua ombra, bensì che la vita resista, che non si fermi, che continui. Che cos’è che permette ad un uomo di continuare a vivere mentre tutto muore? Che cosa consente ad un amore di non spegnersi definitivamente, mentre tutto attorno sfiorisce? Che cosa tiene vivo il desiderio di bene, di vero e di giusto, mentre lo studio arranca e il lavoro appare come un incessante lamento? Che cosa significa rimanere in vita quando chi amiamo muore?
Il vero mistero dell’esistenza non è quello del dolore o della morte — che mistero c’è nel fatto che si soffra o nel fatto che le cose finiscano? — ma quello della vita. Lorenzetto è un po’ l’icona di tutti noi, travolti dal crollo del nostro tempo ma misteriosamente ancora vivi. Perché? Che cosa c’è ancora da scoprire per noi in questa vita? Che cosa ancora ci sfugge da avere davanti altro tempo per scoprirlo? Come è possibile che ogni giorno il nostro cuore si desti dal sonno e che continui ad avere a che fare con la vita, senza che il nostro male pregiudichi alcunché di questo rapporto originario con la realtà? Che cos’ha ancora da sussurrarci l’esistenza, il Mistero eterno dell’esser nostro?
Ecco che tutto ciò che rimane vivo pare tradire, nel suo persistere, il segno d’un compito, d’un destino, il miracolo di una nuova consapevolezza, di una nuova chiamata a essere vivi con più desiderio, con più passione, con più curiosità. Ed è per questo che è difficile essere Giancarlo Lorenzetto: perché si tocca con mano una responsabilità che ti mette all’angolo, che ti costringe a non dare più niente per scontato, a voler sempre capire. Come se l’essere vivi, molto più che l’esser morti, ponesse davvero un problema.
Per questo a uno come Lorenzetto poco interessano le questioni legali o la ricerca dei colpevoli, perché ha a che fare con un problema più grande, immenso, enorme: il fatto di essere vivo e di doversi chiedere il perché. Come a dire, senza voler mancare di rispetto a nessuno, che è quasi facile morire, mentre è difficilissimo — praticamente impossibile — sopravvivere.
Teniamolo presente la prossima volta che ci sentiremo realizzati grazie alle nostre piccole rivincite, alle nostre grandi vendette, alle nostre rese dei conti con i vicini, con gli amici, con l’amata: nessuno è davvero vivo finché la vita non è diventata per lui una domanda, un tormento al quale dover rispondere. Nessuno di noi è davvero vivo finché combatte con la vita, finché spettegola, stigmatizza, si scandalizza: tutti cominciamo davvero ad esistere il giorno in cui, come Lorenzetto, ci scopriamo ancora vivi, sorpresi da una vita che continua mentre tutto vorrebbe che a vincere fosse il crollo, fosse la tragedia, fosse la morte. Quasi a rivelare, di sfuggita, il destino misterioso di eternità per cui tutti siamo stati fatti.