La notizia è agghiacciante in sé, stronca il cuore. Che una madre getti dalle scale i suoi due piccoli, uccidendone uno di quattro mesi, mentre il secondo di due anni è in rianimazione; questo gesto, se appena appena siamo in noi stessi, ci sconvolge. In me ha determinato – fosse accaduto in una villa di Hollywood o in una topaia di Bogotà – la percezione di un intervento diabolico. Satana che ruggisce cercando chi divorare e usa la follia di una mamma, la fragilità estrema di una persona sola, per godere del dolore innocente, illudendosi di impedire all’amore divino di vincere la morte.
Nessun condimento di miele, è finito lo zucchero. Ogni parola che non sia semplice racconto inerme, ma provi a incasellare la tragedia in un procedere razionale della storia verso la libertà (la pretesa liberale e marx-leninista dell’eterno progresso, che deve fregarsene dei sacrifici dei singoli) è una bestemmia, trafigge l’ostia maciullata di quella creaturina.
Si vorrebbe star vicini adesso e per sempre al fratellino maggiore. E anche a lei, alla madre. Ma come? Per dire cosa? Non lo so. Ci sono racconti desolati di Vasilij Grossman quando bimbi ebrei a Berdicev restarono soffocati dalla mano materna che tappava la loro bocca per impedire il singhiozzo, e salvarli dalla cattura delle SS. La mamma premeva troppo, e un minuto dopo si scopre assassina e impazzisce. Nel caso di ieri non è stato un eccesso di difesa, un incidente della disperazione. I due piccoli sono stati scagliati come pupazzi dalle scale. Dove? Nel carcere romano di Rebibbia. Lì c’è un asilo nido, i bambini vivono con la mamma, in una comunità colorata, ma con le sbarre. La donna – di nazionalità tedesca – aveva ricevuto una visita dei parenti, e ne era uscita diversa, cattiva. E ha gettato i suoi piccoli.
Finora, anche se i titoli avevano già fatto capire il contesto, per rispetto dell’enormità della tragedia, non avevo voluto scrivere la parola “carcere”. Temevo per me stesso di cadere nella trappola di usare la situazione di reclusione per evitare il “mistero di iniquità” (Paolo ai Romani), per dirigermi verso la tranquillizzante sociologia, scagliando la facile accusa: colpa della prigione. Non è proprio così, troppo poco dir così. Eppure bisogna pur mettere in fila parole che non possono stare insieme. Eccole però, perché dicono la verità. ”Bambini in carcere”. E già questo dice un’assurdità. Di più ancora: “Bambino nato in carcere”. Che ci facevano a Rebibbia, dietro i cancelli, le porte cigolanti e sbattute?
Il più piccolo è nato prigioniero, dicono i notiziari. In Italia si sta facendo un grande sforzo per superare in modo civile questo assurdo dei bambini reclusi pur di non lasciar libera la madre. Ci sono strutture di comunità, ma non sempre il giudice ritiene opportuna la soluzione. In certi casi di particolare pericolosità sociale, la donna deve restare in una struttura chiusa a chiave. E per il maggior bene del bambino si giudica che il bene del caldo amore della mamma sulla pelle, prevalga sul male di scontare con lei una pena.
Ovvia la domanda: e la pericolosità di questa donna, non era proprio preventivabile? È sicuro infatti che questi piccoli, come la madre detenuta, erano sotto la custodia dello Stato, ed è stato in misura più spaventosa, un po’ come per il ponte Morandi a Genova. Hanno ceduto i pilastri che reggono l’umanità di quella donna, ma andavano tenuti sotto controllo, bisognava mettere in sicurezza dal crollo delle strutture psichiche gli innocenti.