VILNIUS (Lituania) — Il cielo di Vilnius si carica di nuvole per accordarsi al viaggio di Francesco dentro la memoria dolorosa del popolo lituano. Nel giorno in cui 75 anni fa, il 23 settembre, veniva distrutto il ghetto della capitale, il pontefice si ferma in silenzio davanti al monumento che ricorda le vittime dell’Olocausto: accanto a lui la presidente della Lituania. Intorno la città muta. Tra quei palazzi, le strade lastricate dai nomi impossibili, le nuvole basse di un pomeriggio autunnale, viveva la comunità israelitica più vivace dell’Europa Orientale. Artisti, intellettuali, mercanti, dottori avevano speso vite in secoli di relativa libertà, forgiando una cultura unica, di lingua e letteratura Yiddish, le cui influenze sono tracciabili ancora oggi anche in ambiente cristiano.
Vilnius all’alba del 1941, quando l’esercito tedesco sfondava il fronte orientale, era considerata la Gerusalemme del nord, per numero di Yeshivas, scuole rabbiniche e sinagoghe. In pochi mesi quel sogno di convivenza sarebbe stato spazzato via dalla ferocia nazista. Solo 2mila dei 57mila ebrei costretti ad accalcarsi nel ghetto di Vilnus dagli occupanti tedeschi, tornarono vivi, alla fine della guerra. E’ la prima stazione di una via crucis che porta il pontefice a condividere i momenti più bui del ‘900 lituano, segnato da totalitarismi opposti, ugualmente aberranti.
Poche centinaia di metri e Francesco fa il suo ingresso nell’ex sede del Kgb durante l’occupazione sovietica del paese, oggi Museo delle Occupazioni e delle lotte per la libertà. Accompagnato dal vescovo di Vilnius mons. Gintaras Grusas, si addentra nelle stanze delle torture, dove i membri della resistenza lituana venivano interrogati, detenuti, seviziati. Accende un cero nella cella 11 dove centinaia di sacerdoti furono isolati dal regime comunista, con l’accusa di supportare i partigiani lituani o di fare propaganda antisovietica. Il 20 per cento del clero del paese, tra il ’44 e il 1960 fu arrestato, deportato o ucciso, condividendo così il destino di migliaia di concittadini. Si opponeva ad un regime ateo e ostile, che negava Dio e l’uomo. Silenzio e ascolto per il Papa.
Francesco oltrepassa la soglia della stanza dove avvenivano le esecuzioni, attraversa i luoghi del sacrificio dei tanti, più di mille, martiri per la libertà e la giustizia e firma il libro d’onore, invocando il dono della pace e della riconciliazione per la Lituania. Le pareti verde rame, i letti in ferro, l’orrore di stanze in cui sembra di ascoltare ancora le grida straziate dei torturati, la veste bianca del Papa che sfiora i fantasmi di anime portate alla follia dall’odio, restituisce uno dei momenti più intensi e commoventi della visita nei paesi baltici.
Poi l’ultima sosta, di fronte al monumento costruito con le pietre portate dai gulag sovietici dai pochi fortunati dei 28mila deportati dal regime comunista. Una piramide costruita con le mani e il cuore, sormontata da una Croce. E proprio di fronte a quel dolore impronunciabile il silenzio che ha avvolto il Papa per tutto il pomeriggio diventa preghiera. “E’ il venerdì santo del dolore e dell’amarezza — legge sommessamente Francesco — della desolazione e dell’impotenza, della crudeltà e del non senso”. E le sue parole sferzano il vento gelido che si alza, colpiscono allo stomaco le migliaia di persone che sono lì, insieme a lui per non dimenticare. Gli amici, i genitori, i figli, i parroci strappati alla vita dall’ideologia. “In questo luogo della memoria, ti imploriamo, Signore, che il tuo grido ci mantenga svegli. Che il tuo grido ci liberi dalla malattia spirituale da cui, come popolo, siamo sempre stati tentati: dimenticarci dei nostri padri, di quanto vissuto e patito”. Memoria e speranza. Martirio e resurrezione. “Signore non permettere che siamo sordi al grido di tutti quelli che oggi continuano ad alzare la voce al cielo”, continua Francesco. Che dopo si riappropria dello spazio intimo della preghiera.
Così, di fronte a sopravvissuti ed ex militanti della resistenza, il Papa china il capo e porta nel cuore quanti hanno sofferto nella carne il delirio di onnipotenza di quelli che pretendevano di controllare tutto. In sottofondo, un coro dolcissimo intona il canto struggente che accompagnava il viaggio dei deportati verso la Siberia. Sono le note che portano via un uomo anziano, capace di fare memoria.