RIGA (Lettonia) — La giornata lettone di Papa Francesco è racchiusa in due istantanee: il cielo grave e mutevole che illuminava e ombreggiava una Riga deserta, nel primissimo mattino, e l’incanto del pomeriggio di Aglona, la regione a sud-est del paese, con i suoi abeti, la sua fede mariana, gli specchi d’acqua e i castelli merlati, la basilica domenicana dedicata all’Assunzione. Nel paese delle fate, Bergoglio è rimasto il tempo di un lampo: poche ore, zeppe di appuntamenti, soste, spostamenti e voli. Eppure nella nazione dove sembra siano state scritte tutte le fiabe, ha introdotto il secondo tema del suo pellegrinaggio sul Baltico, dopo quello dell’esercizio della libertà. Il respiro ecumenico che la testimonianza cristiana deve avere oggi.
Non che non abbia avuto occasione di rievocare il calvario della seconda nazione baltica visitata, che con la vicina Lituania condivide secoli di invasioni, oppressioni, lotte per la libertà e faticose conquiste di indipendenza. Del resto ci hanno pensato gli entusiasti ospiti del pontefice a fare memoria degli anni di “giogo sovietico”, dei doni avvelenati di una democrazia costruita anche con il sangue dei martiri, mai definitivamente posseduta, insidiata da troppe contraddizioni.
Lui stesso ha sostato per interminabili minuti sotto i 42 metri che si stagliano nel centro di Riga per ricordare, attraverso le braccia alzate di una fanciulla ramata, il dono prezioso dell’indipendenza. Un monumento per la Patria e la Libertà, che gronda orgoglio e nazionalismo, testimone muto di anni di oppressione, scampato miracolosamente alla damnatio memoriae sovietica. Una sintesi plastica del verso più amato dai lettoni per rappresentare la propria anima, “Le mie radici sono in cielo”.
Nelle parole di Zenta Maurina la tendenza a guardare in alto dei lettoni, a valorizzare quella che Francesco ha chiamato “dignità trascendente”, parte integrante di ogni essere umano. Un assaggio di questo afflato spirituale si è avuta proprio nella Rigas Doms, la cattedrale luterana di Santa Maria, dove ha preso il largo la preghiera ecumenica presieduta da Francesco. La più grande chiesa medievale delle Repubbliche baltiche ha accolto Francesco con i suoi archi gotici, la nudità tardo-romanica e la musica divina dell’organo che quando venne costruito nel 1883 vantava il primato di essere il più grande del mondo. Un appuntamento prezioso e semplice che proprio nel luogo che più di altri, nella bellissima Riga, raccoglie la tormentata e tortuosa storia del cristianesimo lettone, ha dato spazio a riflessioni attese sul valore e il compito del dialogo ecumenico.
Alcune premesse sono importanti. Sebbene la chiesa evangelica lettone vanti la fondazione dello stesso Lutero, che nel 1524 incitò la cittadinanza ad aderire alla Riforma, le alterne vicende politiche, le intermittenti conquiste polacche e russe, la continuità con il mondo ortodosso e con il cattolicesimo orientale fortemente identitario, hanno conferito alla comunità protestante un particolare colore che la porta a distinguersi da altre chiese riformate. E’ una delle 30, appartenenti alla federazione luterana mondiale, che hanno fatto marcia indietro rispetto all’ordinazione sacerdotale femminile, stoppando di fatto le donne-prete dal 1993.
L’arcivescovo luterano di Riga, il pastore che ha accolto il Papa, Janis Vanags, ha assunto posizioni decisamente conservatrici rispetto ai suoi colleghi europei: severo giudizio sull’omosessualità, nessuna concessione a derive libertarie su fine vita e concepimento, deciso no all’aborto. Sotto la sua guida il sinodo ha di fatto rigettato con il 77 per cento dei voti aperture fatte 40 anni prima senza cedere di un passo sulla strada che porta all’unità. Anzi proprio nel discorso con cui ha dato il benvenuto al pontefice, ha parlato di amicizia ecumenica a proposito dell’esperienza lettone, andando oltre le competizioni e le violenze del passato. Nelle parole di Francesco invece l’esaltazione dell'”ecumenismo vivo”, l’esperienza di dialogo e fraternità tra cristiani lettoni e insieme il monito a non vivere da turisti la propria fede. Una testimonianza che non sia oggetto del passato, roba da museo, qualcosa che ha smesso di “far vibrare il cuore di quanti l’ascoltano”.
E il Papa ha usato proprio l’immagine del prezioso organo per parlare di un cristianesimo nascosto, incapace di intonare una melodia che possa smuovere e ispirare la vita, di risuonare nei vari ambiti della società, di scombussolare le viscere per far scaturire compassione e tenerezza. La musica del Vangelo — ha raccomandato — deve suonare nelle case e nelle piazze, per far riscoprire il “nostro” della casa comune, contro la solitudine e l’isolamento. Consapevoli che una sola è la strada ecumenica, quella della croce. Una lezione per tutti, protestanti e cattolici.