Ieri mattina, a Santa Marta, Papa Francesco ha detto anzitutto che lui continua a “pregare”, quindi a praticare la misericordia che è l’annuncio del suo pontificato. Prega anche davanti ai “cani selvaggi” che lo attaccano, e che sembrano somigliare in peggio al lupo di Gubbio. Ha detto poi, il Papa, che nella Chiesa continua ad esserci “scandalo” e chi non cessa di seminare “guerra” e impedire la “pace”, cinque anni dopo la drammatica rinuncia di Papa Benedetto. Ma cinque anni dopo la sua elezione, Francesco — arcivescovo di Buenos Aires in anni di terribile dittatura — non sembra aver un solo attimo di esitazione nel voler proseguire il suo impegno “petrino”.
Nessuno può dimenticare, d’altronde, che mai come nella primavera del 2013, il Papa eletto ha raccolto — e mai minimamente sollecitato — una pressante “chiamata di servizio” da parte del conclave, di fronte a una situazione ecclesiale di eccezionale gravità. E’ stato il solo di cui tutti i cardinali si siano fidati, a cui si siano affidati, subito. E non a caso era il solo di cui — nonostante i molti voti ricevuti già nel conclave 2005 — i media non avessero lasciato trapelare ruoli protagonistici, tanto meno ambizioni. Perché il cardinale Bergoglio di certo non ne nutriva alcuna, mentre gli era ben chiaro quanto gravoso fosse il compito.
Fra i molti profili “surreali” del “caso Viganò” (l’espressione è di John Allen, il vaticanista cattolico americano fra i più autorevoli oggi) spicca dunque certamente la fantasia malata che Papa Francesco stia resistendo a una rimozione secondo alcuni matura, addirittura necessaria. Se davvero si dimettesse (e un uomo che non fosse Papa Francesco, negli ultimi giorni avrebbe mandato letteralmente “al diavolo” molti), chi avrebbe oggi la forza e il coraggio che ha avuto lui cinque anni fa? Chi riscuoterebbe in ventiquattr’ore la fiducia del conclave nel mandato di tenere unita la Chiesa, di proseguire in un difficile risanamento, come già Papa Benedetto si era apertamente prefisso, umiliando e sacrificando infine volontariamente se stesso?
Ma quali sono — s’interrogano i vaticanisti — le “vere questioni sul tappeto”? Alcuni vescovi (ad esempio Massimo Camisasca a Reggio Emilia) hanno ritenuto che il modo migliore per esprimere solidarietà e fedeltà al Papa fosse far leggere nelle parrocchie la lettera indirizzata da Francesco “al popolo di Dio” lo scorso 20 agosto. Una lettura in fondo esauriente sia per il “popolo di Dio” che per i giornalisti cui il Papa ha chiesto di “fare il loro mestiere”, di “leggere bene” ciò che viene scritto; e anche ciò che non viene scritto.
Nella lettera il Papa dichiara subito in modo definitivo il suo dolore e la sua vergogna di per “gli abusi sessuali, di potere e di coscienza commessi da un numero notevole di chierici e di persone consacrate”. Francesco si assume la responsabilità ultima di cristiano e di Pontefice per “le ferite che non saranno mai prescritte”; e afferma il suo impegno a “concentrare gli sforzi per sradicare questa cultura di morte”. Il sacerdote Jorge Mario Bergoglio parla esplicitamente a tutti i suoi confratelli di vita consacrata che improvvisamente si accorgono di essere divenuti parte problematica per la Chiesa, anche se il Papa si mette in gioco per primo fra di loro.
E’ inevitabile che non tutti possano essere d’accordo con il Pontefice sul fatto che la realtà umana della vita consacrata — nel ventunesimo secolo — appaia irta di nodi che vanno sciolti. Il Papa è d’altronde il primo a essere consapevole che i nodi — tanti e delicatissimi sul piano teologico, ecclesiale e pastorale — possano essere sciolti in modi diversi e comunque non vadano mai tagliati con la spada (non è questa la Tradizione della Chiesa). E’ altresì evidente l’enormità di un ripensamento della formazione del clero, dell’ammissione alla vita consacrata, del profilo personale del presbitero nella Chiesa. Quello che certamente Papa Francesco sta combattendo è ogni forma di “negazionismo” sul tema: ogni rifiuto di fare i conti con “il passato” ma soprattutto di riflettere sul presente per guardare al futuro. “E’ già tardi”.
Nella lettera il Papa parla più volte di “abuso sessuale”, mai di “omosessualità”. E poiché è stato proprio lui a porre da Pontefice un chiarissimo interrogativo pastorale — “Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicarla?” — è facile arguire l’assenza di ripensamenti: anche quando il cardinale americano Raymond Burke — nei giorni scorsi — gli ha contestato un legame causale meccanico fra “cultura gay nella Chiesa” e “scandali della pedofilia”. E’ questo, d’altra parte, il terreno su cui il “percorso” individuato dal Papa appare maggiormente alla prova.
Da un lato c’è un Pontefice che ha chiesto a tutti gli appartenenti alla Chiesa di praticare una misericordia nuova verso tutti coloro che cercano Dio nella Chiesa pur avendo orientamenti omosessuali. Dall’altro lo stesso Pontefice è impegnato a “purificare” la Chiesa dopo la tragedia della pedofilia, di frequente connotata dall’omosessualità. Non da ultimo un Papa che non ha avuto timore di usare fra virgolette l’espressione “lobby gay” è contemporaneamente impegnato in un’azione di riforma di diverse strutture della Chiesa. Il rischio che questo lavoro quotidiano di estrema difficoltà e fatica venga preso di mira da critiche — spesso strumentali e in corto circuito – — è naturalmente altissimo: e il “caso Viganò” ne è probabilmente un esempio eclatante e forse non è neppure fra i più insidiosi. E’ fin troppo facile fingere di attaccare il Papa su apparenti questioni dottrinali “alte” per mascherare conflitti “bassi”. E’ ancor più facile aggredire alle spalle un Papa chino su una Chiesa da rialzare, a curarla nel suo “ospedale da campo”. Proprio il “caso Viganò”, d’altra parte, ha confermato che il Papa non ha paura di correre alcun rischio, di esporsi ogni giorno agli agguati dei “cani selvaggi” più disparati, di camminare sempre in avanti lungo un percorso pastorale unitario: dentro e fuori la Chiesa.
Se le ultime parole della lettera sono “lottare con coraggio”, le prime sono: “Se un membro soffre tutte le membra soffrono assieme”. Dietro la citazione da San Paolo, in stile di parabola, si scorgono indicazioni ecclesiali forti. La prima è senz’altro un appello — perentorio — a ricomporre le divisioni all’interno della Chiesa. Quest’ultima ha già sofferto troppo per i malesseri — o le vere e proprie malattie — di alcune sue membra. L’era dei “corvi” e dei leak dev’essere superata esattamente come quella degli abusi sessuali (e i corvi si sono levati in volo sulle macerie degli abusi).
Un’attenzione specifica è infine riservata, senza ombra di dubbio, a un “membro” ben identificato della Chiesa: l’episcopato americano al centro della più ampia comunità cattolica d’Oltre Atlantico. Un mondo certamente attraversato, negli ultimi decenni, da uragani che ne hanno scosso la saldezza interna, la reputazione esterna, non da ultimo le basi materiali create in secoli. Non casualmente la lettera entra nel merito della crisi-pedofilia citando direttamente l’ultimo rapporto del general attorney della Pennsylvania: mille abusi in settant’anni, copia puntualmente il Papa. Un fenomeno non limitato agli Stati Uniti, ma che evidentemente negli Usa ha conosciuto una gravità particolare. E’ in Nord America, comunque, che l’arcivescovo Viganò ha attinto il materiale utile per l’ultimo attacco al Papa (anche se forse esso nasce nelle fratture apertesi all’interno della Santa Sede). E, per quanto “surreali”, sono state visibili quasi solo in America le voragini fra vescovi sull’attendibilità o meno dei fatti e dei giudizi contenuti nel “memorandum Viganò”. E’ — non da ultimo — l’America di Donald Trump a scuotere nel profondo anche la comunità cattolica sul terreno delle cosiddette “battaglie culturali” interne e delle tensioni geopolitiche globali. Naturalmente il Papa scrive che lui è a fianco di tutti i cattolici americani e dei loro sacerdoti nello sforzo di “far ricrescere i doni della compassione, della giustizia, della prevenzione e della riparazione”.