“È come una mia piccola enciclica”: così il Papa si è accomiatato dal direttore del Sole 24 Ore Guido Gentili, al termine di una lunga intervista pubblicata ieri su due pagine dense dal quotidiano della Confindustria. È una piccola enciclica che tocca tanti temi dell’attualità sociale ed economica. L’intervistatore non cercava battute da scoop; per questo il discorso di Francesco ha potuto distendersi con molta chiarezza e con inedita completezza. L’avvio del dialogo è emblematico di quale sia lo sguardo di Francesco rispetto allo sviluppo economico e alla crescita. Avverte da subito infatti che quello che non funziona oggi è il confidare nelle performance dei singoli come traino per una ricchezza collettiva. È una logica che non funziona, com’è dimostrato dal fatto che questo è un processo che genera scarti a livello umano e sociale. Scarti, che non sono più semplicemente gli sfruttati e i poveri, ma sono gli “sbattuti fuori”, i “completamente rifiutati”.
Il Papa parla addirittura di “esclusione strategica di chi ci vive accanto”. Questa non è crescita vera, è crescita malata. È un processo che ha dimenticato la componente fondamentale di ogni vero sviluppo: la dimensione del popolo. Qui Francesco fa un’osservazione interessante. Dice che la dimensione del popolo non è esito di un azione volontaristica. La dimensione di popolo è una dato di fatto che consiste in quei milioni di azioni quotidiane, spesso gratuite, che permettono la convivenza. Per accorgersene, dice il Papa, basta “guardarsi attorno con il cuore aperto”. È una dato di fatto che ha nelle dinamiche delle famiglie il primo modo di svelarsi. Qual è la caratteristica fondante di questo amalgama che riconosciamo come popolo? Quello di essere inclusivo, dice Francesco. Dall’economia malata di individualismo smanioso, si deve passare a un’economia che faccia leva su quel portato di positività reale che è proprio di ogni dinamica comunitaria. È un cambio di passo che non obbedisce solo a necessità morali ma anche ad una logica di vera convenienza.
Il Papa dice anche che questa spinta verso un’economia inclusiva non è solo una buona intenzione ma è realtà già operante nel tessuto sociale: è il Terzo settore, soggetto che non ha più solo una ruolo “riparativo” (riparare alle ferite aperte nel tessuto sociale da uno sviluppo diseguale) ma propulsivo. Che mette cioè in atto processi in cui il profitto non si misura solo in dividendi ma in valore e crescita sociale prodotta. Anche qui non si tratta di armarsi di buone intenzioni ma di convincersi a camminare su terreni più solidi: il benessere sociale è la condizione essenziale perché un’impresa cresca. “Il solo perseguimento del profitto non garantisce più la vita dell’azienda”, dice con molta determinazione Francesco.
Infine tra le tante cose contenute nell’intervista vorrei annotare questa. Secondo Bergoglio io mondo economico si sorregge “sulla conoscenza del come” (cioè sulle competenze), ma “anche del perché”. Il perché è il significato di quello che si produce. Se quello che si produce mina o addirittura distrugge un tessuto di vita comune (si pensi oggi al fenomeno dei giochi e delle slot machine), evidentemente ci troviamo davanti anche ad una distruzione dell’economia, anche a fronte a fatturati a tanti zeri. Tornare a valutare il “perché” è quindi un’altra condizione per costruire ricchezza reale e non bolle.