Questa volta, davvero, non ci sono parole.
Con che parole infatti si potrebbe dire l’angoscia di un bimbo di due anni, sprofondato nel buio, stretto nella morsa della terra, prigioniero di un’oscurità che non comprende? I miei peggiori sogni di angoscia sono sempre stati quelli in cui dovevo attraversare passaggi impossibili, sempre più stretti: che cosa può succedere nella testa, nel cuore di un bimbo, se quegli incubi terribili si avverano? Che cosa sarà successo, nella testa e nel cuore del piccolo Alfredo Rampi, nelle interminabili ore del 1981 che tutti portiamo scolpite nella memoria?
E com’è piccola, com’è debole, com’è insufficiente tutta la nostra tecnologia, tutta la nostra – presunta – potenza davanti a un fatto così. Non sappiamo come fare per raggiungere quel bimbo che trema, che piange – forse, ancora, chissà – nelle viscere della terra. Scopriamo che con tutta la nostra potenza, la nostra tecnologia, siamo ancora piccoli, fragili, deboli, davanti a una realtà che è sempre più grande di noi.
E con che timore, con che infinito timore e tremore, proviamo ad articolare la grande domanda, che di fronte a un dramma così non può non tornare ad affiorare: che cosa c’è ad aspettare Julen in fondo a quel pozzo, là, nella Sierra di Totalán, nei dintorni di Malaga? L’abbraccio del nulla, della terra da cui proviene e a cui non può non ritornare? O la luce da cui proviene e a cui è destinato?