Oggi un articolo sul sito della Gazzetta del Mezzogiorno ha generato in me una reazione strana; non ero sorpreso dal quello che raccontava, ma allo stesso tempo ero un po’ scioccato. 

Si tratta di una famiglia, genitori e due figli, un ragazzo adolescente e una bimba di nove anni. Da due anni solo la bimba usciva da casa, mal lavata e vestita, per andare alla scuola dell’obbligo e comprare il necessario per la casa.



Gli altri tre membri della famiglia stavano tutto il tempo, notte e giorno, davanti agli schermi dei loro computer, navigando sul web. Da tempo non mangiavano insieme, non si lavavano, a malapena si nutrivano. Le condizioni, sopratutto del figlio adolescente, erano spaventosamente ridotte a un stato pericoloso di malnutrizione, atrofia fisica e debolezza psichica. L’esistenza, per tutti e tre, era stata assorbita dall’interazione col mondo virtuale. L’intervento dai servizi sociali ha messo fine a questa tristissima situazione, un fallimento di vita che sarà recuperabile con estrema difficoltà.



Non mi ha sorpreso, dicevo, perché da tempo ho in mente come il mondo virtuale possa diventare un guscio, un ambiente più o meno totalizzante che mira alla sostituzione della realtà. Però questo fatto di cronaca di una comunità familiare dove i rapporti con la realtà, comprese le relazioni reciproche, sono interamente scomparsi, mi ha scioccato. L’episodio mi ha fatto ricordare una conversazione con una mamma, disperata perché non riusciva a staccare suo figlio dai videogiochi. Un giorno, dato che non sapeva più cosa fare o pensare per affrontare la situazione, chiese al figlio di farle vedere di cosa si trattava, per imparare anche lei a giocare. Il ragazzo la introdusse molto volentieri nel suo mondo. Quando però lei si alzò per andare a preparare la cena, lui le disse: “vedi, mamma, devi proprio imparare, perché una volta che cominci a starci dentro, non ti sentirai mai più sola”.



Questa frase, per la prima volta, le ha fatto capire quanto era profonda in suo figlio la paura della realtà, ma anche quant’era forte il suo attaccamento affettivo a quell’ambiente, tanto che ogni tentativo di proibirlo provocava violenza.   

Dunque, cosa ci sta succedendo? Una volta le tecnologie ci regalavano strumenti capaci di potenziare il nostro intervento nella realtà: andare in un luogo più velocemente, vedere cose più lontane e più piccole, guarire i malati con più efficacia. Adesso, nel mondo virtuale, gli strumenti formano un ambiente che, invece di aiutare il nostro intervento nella realtà, rimpiazzano il nostro rapporto con essa. Una volta chiesi a un gruppo di studenti della scuola media la definizione della parola “schermo”. Per loro era quell’oggetto che permette di vedere le cose in tv, nel computer, al cinema. Nessuno mi diede la definizione originaria di “schermo” come ciò che mi separa dalle cose, che mi protegge e nasconde da loro e loro da me. Ebbene, credo che anche nella tecnologia digitale la definizione originaria sia quella più vera. 

E tutto questo ben si comprende. Infatti che cos’è la realtà? Non è solo ciò che ci ha consentito di esistere, ma anche ciò che sicuramente ci ucciderà, e questo probabilmente solo dopo averci fatto passare sofferenze e agonie e averci tolto tutto ciò che in questo mondo abbiamo davvero amato. Ecco perché da tutto questo ci mettiamo al riparo molto volentieri. Peccato che, come ci dimostra un libro importante di Jean M. Twenge, iGen, più passiamo tempo nella realtà virtuale, più crescono l’ansia, i pensieri di suicidio, l’isolamento.

La soluzione? La nostra vera sfida non è come cambiare la realtà, ma come amarla così com’è, e questa sarà la via del cambiamento più bello e sicuro, perché è l’amore che scatena la vita dentro la realtà. Però amare la realtà risulterà sempre impossibile senza un’educazione che ci fa vedere la morte stessa non come la nemica da fuggire, ma una – come noi – umile serva della volontà salvifica di Dio, un passaggio che ci è dato per imparare ad avere più fiducia in Lui. 

La sfida, perciò, è pensare un’educazione che, in semplicità, con gesti concreti, con l’uso delle mani, ci faccia toccare il più possibile le cose reali: dalla natura alla sofferenza dei malati. Solo questa comunicazione di vita ci toglierà la paura. Il tempo delle grandi concezioni è passato. Adesso, urge la semplice riscoperta che la realtà è il luogo della vita, e anche dell’incontro con la vita eterna.