Leggere di Theo Fry, nel vortice degli impegni indifferibili di una giornata qualunque, è stato uno strattone e un risveglio.
Poche righe di agenzia, che battono numeri impressionanti: venticinque arresti cardiaci in un solo giorno, diciassette operazioni nel primo anno e mezzo di vita per rimediare a un complicato difetto all’aorta. E poi la guarigione – “straordinaria”, ammette il chirurgo che lo ha seguito – dopo un ultimo intervento a cuore aperto. La parola che sguscia fra le altre è miracolo. Ne parlano così, in Gran Bretagna, succede tutto ancora là, di nuovo a Liverpool, nello stesso ospedale di Alfie Evans. Miracolo. Cioè qualcosa di non spiegabile, che non si può infilare nel recinto della conoscenza umana ma che comunque accade.
Mi chiedevo che cosa potessimo guadagnarci noi che siamo qui, a chilometri di distanza.
Il primo effetto (non scontato) è un senso di sproporzione. Una cosa così mastodontica in un corpo così fragile, e noi qui, presi tra la noia e la furia per i nostri conti che non tornano. E poi l’invidia, sì, che si mischia a un desiderio: perché non a me, un miracolo? Perché non qui, ora, dove sto seduto? Un vento di novità che mi capiti a bruciapelo, che mi sollevi dalla polvere delle solite cose, ma chi lo dispone, questo benedetto miracolo? A chi chiederlo, a chi mendicarlo?
Theo Fry ha ricevuto un regalo. Né medici, né genitori, né parenti stretti o alla lontana ne sono il mittente. Non era nelle loro facoltà realizzare ciò che è accaduto. Allora da cosa o da chi è arrivato il dono della sua guarigione?
Ecco. Il primo miracolo che genera un miracolo è accorgersi di un Oltre. È bramare di conoscere questo mandante che può certe cose, più ancora che bramare i suoi regali. Di scorgerne le tracce un po’ ovunque. Di averlo come amico.
A Theo Fry sono debitore di questo. Di un risveglio di coscienza. Di un ritorno a desiderare che il mandante del suo miracolo possa scorgerlo anch’io nel pantano dei miei giorni.