Conosco il Cara di Castelnuovo di Porto. Lo ricordo con pena e con un brivido. La strada che si perde nelle desolate praterie che non sono neppure periferia, perché la periferia è intorno a un centro, non sospesa nel nulla. Il volto della ragazza siriana sfuggita ai bombardamenti, che ancora stringe il suo bimbo ripensando con occhi vuoti al rombo degli aerei. Il volto del ragazzo ghanese che è scappato dal carcere perché protestava per la fame e la giustizia. Il viso del ragazzo che si commuoveva ancora per la carezza di un papa, che era arrivato fin lì a celebrare la messa, ai confini del mondo. Il volto dell’assistente sociale giovane, appassionata di un lavoro sospirato e immaginato diverso, ma che lì trovava una forma nuova, che la rendeva adulta. La solerzia di chi serviva alla mensa, di chi gestiva la farmacia, dell’imam che radunava i suoi fedeli, in una stanza adibita a moschea.
Ma anche i bambini senza giocattoli, lungo le reti che delimitano il campo; i più grandi con l’illusione di un campo da calcio, nel prataccio rinsecchito e sporco dietro il caseggiato. Un capannone, piuttosto, un hangar risistemato alla bell’e meglio, con stanzette da carcere che a seconda dell’educazione degli inquilini avevano un’aria di casa. Etiopi, soprattutto, una colonia: e non abituati al nostro modo di vivere, senza alcuna nozione igienica basilare, che davano un bel daffare agli operatori e agli addetti alle pulizie.
Era encomiabile lo sforzo dell’accoglienza, l’attenzione alla persona, ma quello non era un luogo dove vivere, se non per il breve tempo in cerca di altre collocazioni, più dignitose e speranzose di futuro.
E’ difficile parlare di un simbolo, oggi, per l’una e l’altra parte politica, e manco le parti sono poi distinte con chiarezza. I simboli, poi, dimenticano la realtà, la carne, li si stiracchia, li si colora a tinte dell’ideologia. Così solo degrado, per una parte, con i sindaci dei paesi limitrofi che lamentavano da anni incuria, delinquenza, e che ora denunciano le passerelle di politici che per troppo tempo hanno voltato le spalle; per l’altra parte, il rigore di regole stabilite non da ora, ma auspicate dell’Ue e dal precedente ministro Minniti: i grandi centri si chiudono, Castelnuovo, Mineo, devono essere al massimo zone di passaggio, non residenze stabili.
Per quello che ho visto è necessario, tristemente necessario, e spiace per chi perderà il lavoro, per chi lascerà il conforto, pur nella precarietà, di amicizie nate dalla desolazione comune, dall’affetto di chi faceva loro del bene.
Però la giustizia si declina sempre partendo dall’uomo, che conta più di ogni regola scritta. E gli uomini e le donne di Castelnuovo avevano diritto ad essere trattati con rispetto: sapere per tempo che sarebbero stati spostati, con garbo, pazienza, sapere dove sarebbero stati non “collocati”, come pezzi da smontare e rimontare, ma rialloggiati, presi in cura in luoghi più adatti a imparare la lingua, crescere i figli, cercare un lavoro. O anche riconosciuti non idonei ad esser accuditi in Italia, per i loro comportamenti pregressi o presenti. Si poteva agire con ragionevolezza, gentilezza – virtù sempre più diserta -, comprensione. I bambini e le loro famiglie non dovevano essere trasferiti a metà anno scolastico, e spiace che la retromarcia sulla loro sorte sia stata arruffata e improvvisa, solo al seguito delle proteste montanti: adesso i bambini restano, ma c’è chi l’ha saputo mentre stava salendo su un autobus, destinazione ignota.
Spiace che la propaganda, dall’una e dall’altra parte, nasconda la mancata vigilanza, la faciloneria, o l’arroganza muscolare. Perché se poi chi viene sbattuto fuori non sa dove andare, non sarà garantita alcuna sicurezza. La propaganda riservatela ai salotti tv, alle comunicazioni social, agli editoriali tronfi. Non spendetela sulla testa di povera gente, quella perbene, soltanto sfortunata, che non merita di finire in mano ai profittatori o agli speculatori della politica.