Il primo livello di questa storia racconta di un bambino di sette anni picchiato a morte e di una bambina di otto anni, altrettanto percossa con violenza, salvatasi a stento. L’episodio è accaduto nella provincia di Napoli e le forze dell’ordine hanno fermato per la mattanza un giovane di ventiquattro anni, compagno della madre dei due piccoli nati da una precedente relazione: sarebbe stato lui l’artefice del gesto, ma la dinamica e il movente non sono ancora del tutto chiari. I due hanno una figlia loro, incolume, e le prime ricostruzioni parlano di una possibile “vendetta” per le troppe attenzioni riservate dalla mamma ai due bimbi “suoi” a discapito della “loro” bimba comune.
È tutto troppo ipotetico e inconsistente per addentrarsi in analisi e giudizi. Eppure, ad un secondo livello di lettura, emergono due elementi significativi che trascendono questa vicenda particolare: sempre di più i figli tendono ad assumere agli occhi dei genitori i contorni di una “proprietà”. Questo non è vero soltanto nel momento della violenza, nel momento in cui un genitore dispone del figlio come di un oggetto, ma è particolarmente vero nel momento dell’amore e della cura: nel figlio l’adulto vede un frammento di sé, un’opera talmente sua che qualunque giudizio sul figlio diventa – quasi in automatico – un giudizio su di sé. La violenza contro gli insegnanti, contro chi fa semplicemente un’osservazione o contro il proprio marito o la propria moglie sorge sempre, per quanto riguarda i figli, dal sentirsi sotto attacco, sotto processo, indiziati per il reato di “inadeguatezza all’essere grandi”, “all’essere all’altezza del ruolo di genitori”.
Non solo: questo secondo livello di lettura ci mostra la banalità della morte, tanto che – come diceva Gaber – “morire e far morire è un’antica usanza che suole aver la gente”. Sembra facile, quasi normale, in questo nostro tempo, superare o risolvere i problemi semplicemente eliminandoli, togliendoli di mezzo.
Tuttavia esiste un terzo livello di lettura in questa vicenda, un livello sottaciuto, che difficilmente trova spazio sui giornali o nelle trasmissioni televisive: i bambini sono, agli occhi dei grandi, strumenti. Strumenti di potere, di realizzazione, di appagamento, di sfida. L’abuso sui minori, a qualunque livello, nasconde l’incapacità di essere uomini. Ma che vuol dire questo in ultima istanza? C’è un piacere nella violenza che risponde ad un’esigenza malata che l’uomo si porta dentro: poter rispondere al disagio della vita, e alla sua pretesa, con un atto di possesso, di supremazia. L’uomo gode a far del male al prossimo, nel male percepisce – anche solo per un istante – il senso di essere vivo, l’esistenza del proprio valore. Ciò che si dovrebbe costruire pazientemente con l’amore, è rubato con la violenza. L’umiliazione cui espone sovente la vita è vendicata da un gesto che tenta di sottomettere la vita stessa, restaurando un perverso controllo, un perverso dominio. All’origine di ogni male c’è soltanto un dolore, la mancanza di un amore, il clamore di una presunta ingiustizia. Ma dolore non scaccia dolore, punizione non argina odio, vendetta non genera pace.
La spirale del male, attraverso cui l’uomo cerca di liberarsi della propria sofferenza, si guarisce solo con la forza del bene, del perdono, della misericordia. Perché mentre tutti stanno a dare addosso a quel presunto mostro, ricoprendolo di ogni nefandezza, pochi uomini saggi se ne stanno in disparte e piangono, vedendo in quell’orrore un’eco di quello che ciascuno di noi potrebbe essere, un’eco di quello che ciascuno di noi, senza l’esperienza di un amore vero, potrebbe diventare.