Ci sono frasi del Papa che non entrano ufficialmente nel suo magistero, ma che raccontano meglio di altre l’intenzione profonda che anima un pontificato. È il caso della sottolineatura che Bergoglio ha fatto alla prima udienza del mercoledì del 2019, affermando che “Le persone che vanno in chiesa, stanno lì tutti i giorni e poi vivono odiando gli altri e parlando male della gente sono uno scandalo: meglio vivere come un ateo anziché dare una contro-testimonianza dell’essere cristiani”.
Il giudizio preciso, pronunciato a braccio, non è finito nel testo ufficiale dell’udienza, ma in poche ore ha fatto il giro di tutte le redazioni giornalistiche, destando simpatia “per un Pontefice che esalta gli atei” e preoccupazione “per un cristianesimo perfetto che non esiste e che finisce per svilire la devozione di tanti”. Eppure quello che voleva dire il Papa era ben altro: una fede che non diventi vita, che non si trasformi in un impegno con sé, non è una fede, ma una forma di ateismo. Se la fede non si porta dietro una verifica, un lavoro personale dentro il dramma del vivere, allora è meglio dichiararsi direttamente “non credenti”.
Credere è una parola che deriva dall’indoeuropeo e significa “dare il cuore”, impegnare il cuore in qualcosa. Ma che cos’è il cuore? Il cuore è quel criterio di giudizio che la natura — Dio — ha messo dentro ognuno e che si rivela come disagio, come bisogno, come ferita, come esigenza di infinito. Fare esperienza significa dunque paragonare ciò che ciascuno vive, in un certo spazio e in un certo tempo, con il proprio cuore, con la domanda di bene, di vero, di giusto e di bello che ci portiamo dentro. Questo paragone serrato tra la parte più vera del mio Io e la realtà è un lavoro, chiede un lavoro. Dare il cuore, credere, significa impegnarsi in questo confronto stringente, trasformare il proprio rapporto con le cose in un giudizio continuo.
Ma il cristianesimo introduce un fattore in più: esso entra nella storia come l’annuncio che l’unica risposta a ciò che il cuore attende è Cristo. Per cui il problema del cristiano è verificare se quest’annuncio sia vero, paragonare ogni circostanza che accade con la Presenza di Cristo che promette di compiere la domanda del cuore dentro quella singola realtà.
O l’esperienza di fede diventa l’esperienza continua di questa verifica oppure Cristo diventa un puro nome: si vive nominandolo, ma senza incrementare la familiarità con Lui, senza davvero farne esperienza, senza credere. Quante comunità imbrigliate in ardite disquisizioni teologiche ed ecclesiali hanno smesso di fare questo lavoro di verifica! Quante comunità, preoccupate delle loro performance e del confronto con gli altri, hanno abdicato a questo processo fondamentale che rende la fede “mia” e non un bene di rifugio! Quante comunità hanno smesso di educare a questa verifica della fede, preferendole iniziative sociali o discorsi intellettuali e moraleggianti.
Dilaga nei paesi cristiani un ateismo strisciante e pervasivo. Il Papa ci mette in guardia da tutto questo, avvertendoci di tutto ciò che ci rischiamo di perdere, perseverando dentro una dinamica simile. Meglio allora fare emergere dinnanzi a tutti il proprio ateismo pratico, meglio essere onesti con se stessi. E ammettere di aver rinunciato a verificare se sia vero, anche per un europeo di oggi, che Gesù Cristo sia il Figlio di Dio, ciò che rende umana e finalmente vivibile tutta la nostra vita.