Leggo dei tre ragazzi che hanno malmenato e accoltellato un coetaneo, “colpevole” – a quanto sembra – di aver fatto qualche complimento a una ragazza del loro giro, e mi scende un brivido per la schiena. Stamattina – non invento, è successo stamattina – incrocio un mio alunno, che a voce altissima dice al branco che uno ha lasciato la tale, e che adesso tutti se la faranno (la tale). Poi passa a parlare di un’altra, una del branco, grida che se qualcuno si azzarda ad avvicinarsi (all’altra), guai a lui (non posso trascrivere qui le espressioni esatte, al lettore immaginarle). Nel frattempo, un gruppetto poco distante si esalta ascoltando un rap: “Sto vendendo crack/ Ho una pistola in tasca/ Prendo 14 valium/ Ho stuprato un’anziana/ Sto facendo i soldi/ A mia madre la chiamo puttana” e così via (quel che segue è peggio). Poco prima di Natale, un insegnante saggio ha avvisato la polizia dopo aver ascoltato un diverbio fra due gruppi di studenti che si davano minacciosamente appuntamento fuori da scuola. Eccetera.



Parole, potrebbe dire qualcuno, mode, atteggiamenti… sì, ma a poco a poco le parole fanno effetto. Se uno continua a sentir dire e a dire “ti ammazzo, ti spezzo, ti questo, ti quello”, prima o poi uno lo fa. C’è un clima, almeno in una fascia – abbastanza ampia, temo – di ragazzi, per cui pensare che l’unico modo di vivere è farsi strada a cazzotti è normale. Normale, ovvio, scontato.



Inutile stracciarsi le vesti. L’istinto degli umani – degli umani maschi, perlomeno e soprattutto – è quello: occhio per occhio dente per dente, e il clan. I miei studenti fanno un salto sulla sedia, quando – raramente… – riesco a far intuire loro che l’Iliade non racconta niente di diverso: hanno toccato la donna di uno di noi, andiamo a spaccargli le ossa. Certo, in quel caso da pari a pari, non vigliaccamente come a Massa: è l’inizio della civilizzazione.

Da Omero in poi ci sono voluti secoli, millenni per uscire dalla logica tribale della vendetta; e la vittoria è sempre precaria. Come insegna Ortega y Gasset, ogni generazione affronta un’“invasione verticale” di barbari da civilizzare; come spiega Francesco Piccolo ne L’animale che mi porto dentro, quel richiamo ancestrale è tutt’altro che passato: è presente, potente, in ciascuno, qui e ora. Piccolo è cresciuto in un cortile di Caserta, dove “i miei amici mi avevano insegnato che bisognava partire con una testata in faccia prima di discutere, prima, appena si sentiva la possibilità di uno scontro, di una sfida”. E ancora adesso “se qualcuno mi fa un torto, non perdono. Se qualcuno fa un errore, lo paga. L’animale che mi porto dentro è uno che vuole continuamente fare a botte; che ai semafori si incazza, insulta, ha voglia di litigare, dà cazzotti contro i finestrini e dice: scendi che t’ammazzo”.



Ha la lealtà di riconoscere che è così, Francesco Piccolo. Sono così, i miei studenti. Sono così, i tre ragazzi di Massa. Francesco Piccolo ha letto dei libri, ha incontrato altre voci che dicevano cose diverse, prova ogni giorno a combattere l’animale che è in lui. I miei studenti, i ragazzi di Massa ascoltano solo voci che l’animale lo incitano, lo aizzano. È colpa loro, se sono cresciuti in un’epoca che esalta lo “spontaneismo”, deride tutti i tentativi di costruire una civiltà come “condizionamenti” da cui “liberarsi”? La lotta con l’animale che è in noi è eterna; se poi esaltiamo la “spontaneità” – cioè l’istinto, cioè l’animale – è persa in partenza.