“Voglio vivere” diceva con un filo di voce pochi giorni fa Lorenzo Farinelli, il medico attore anconetano di trentaquattro anni affetto da linfoma non-Hodgkin a grandi cellule di tipo B. “La volontà di Dio rende tutto perfetto”, rispondeva il medico trentasettenne di Firenze, Caterina Morelli, agli amici che le chiedevano conto della sua lotta contro il cancro alla mammella molto aggressivo che aveva fatto la sua comparsa all’indomani delle nozze celebrate nel 2012 e che l’aveva resa via via, nelle sue diverse manifestazioni, sempre più compromessa nei movimenti e nell’autonomia.
Due storie che si mescolano e si incrociano fatidicamente nella cronaca di questi giorni, con un analogo epilogo che è quello dell’apparente vittoria delle leggi della fisica sul desiderio che abitava entrambi. Lorenzo e Caterina sono morti. Il primo dopo aver ispirato, e concluso, un’imponente raccolta fondi da 600mila euro per tentare una cura sperimentale negli Stati Uniti che potesse dargli un’ultima speranza. La seconda dopo aver deciso di non curarsi nei modi inizialmente consigliati dai medici, per evitare di interrompere la gravidanza del piccolo Giacomo e far spazio – con la propria vita – ad un’altra.
In Lorenzo vediamo il bisogno indomito che tutti noi abbiamo di esserci, di valere, di non assistere inermi al tempo che ci consuma e che ci porta via. Ma in Caterina siamo spettatori attoniti della certezza che anima chi sa bene che la vita è sempre “per qualcosa”, per un compito, e che si realizza non nella misura in cui è lunga e ostinata, bensì nel rapporto con Qualcuno che coincide col rapporto con tutto quello che quel Qualcuno ha voluto e ci ha affidato.
Una lettura semplicistica si fermerebbe a descrivere queste due vite come esempi di caparbietà da un lato e di altruismo dall’altro. Eppure non è così: Caterina aveva il desiderio di Lorenzo, la sua caparbietà, ma aveva ben chiaro che a nulla serve vivere se non per appartenere, per partecipare – con la nostra vita – alla vita di un Altro. Spesso vogliamo vivere, ci riprendiamo la vita: la strappiamo ad un bimbo che sta per nascere, ad una scelta universitaria fallimentare, ad un lavoro frustrante, ad un matrimonio sbagliato. Ce la riprendiamo. Ma non sappiamo che cosa farne: sentiamo che si consuma, che ci consuma, e nella fretta di non farla trascorrere invano la violentiamo con la forza cieca e barbara di chi crede che infiniti atti di autonomia possano produrre istanti di vera libertà.
I tumori, questi muti compagni del nostro tempo, sono lì a risvegliare ciascuno dall’incantesimo che ci illude di essere eterni, di poter volere per sempre, infinitamente di nuovo. Il tumore ci dice che non siamo fatti per arraffare, per trattenere, ma per lasciare andare, ci rende evidente che tutti dobbiamo salutarci e che nessuno può venire davvero con noi. Non c’è differenza tra chi ha un tumore e chi non ce l’ha: tutti dobbiamo morire e tutti dobbiamo riconsegnare ciò che abbiamo avuto in prestito. L’unica differenza – ci insegna Caterina – è tra chi è stato toccato dalla notizia del motivo per cui tutto ci è stato donato e chi – al contrario – lo ignora e continua a maledire e bestemmiare il destino cieco e baro, cercando di contendere alla morte ogni secondo, ogni istante, ogni momento.
Ma il nostro nemico non è la morte, che al funerale di Caterina si è rivelata in tutta la sua capacità di essere festa che apre la strada al Cielo, il nostro nemico è nell’avere tanti istanti da vivere ma nessun Cielo da guardare. Il nostro nemico è il nulla. Il nulla in cui si perdono i nostri ragazzi, il nulla in cui trascorriamo le nostre giornate, il nulla in cui si declinano i nostri dialoghi e le nostre appassionate battaglie per salvare il mondo. Caterina ha vinto il nulla: con la sua santità, col suo equilibrio, con la sua intensità.
E non è così lontano dal vero pensare che, nel suo grande amore per tutti, sia andata a cercare subito Lorenzo per dirgli: “Il tuo desiderio è stato ascoltato: adesso, amico mio, possiamo vivere per sempre”.
Che tutto questo non finisca sommerso dalla nostra estraneità, che questo dolore e questa grazia possano essere come un alba che scaccia la notte. Come un inizio di qualcosa che c’è già. E che non ci molla.