Il card. Sean Patrick O’Malley, coscienza critica dell’America cattolica devastata dagli scandali sessuali, con tono grave, ha risposto all’assalto mediatico dei giornalisti di tutto il mondo affermando che non vi è nulla di più urgente nella Chiesa di oggi della tutela dei minori. Una dichiarazione che avrà fatto saltare sulla sedia ben più di un tradizionalista. Ma è indubbio che la questione abusi è, in questo momento storico, il terreno dove si gioca la credibilità della testimonianza evangelica nella Chiesa cattolica. L’ascolto delle vittime, la brutale onestà con cui hanno riferito stupri, violenze, abusi ad opera di sacerdoti e religiosi, il dolore esposto nell’aula nuova del sinodo ha posto definitivamente “il problema” nella carne della comunità ecclesiale.
“Il terreno sacro”, la sofferenza degli abusati, dove si tocca il corpo martoriato di Cristo è il punto di partenza per una riflessione sulla Chiesa che come una madre addolorata – ha ricordato ieri il cardinale indiano Gracias – è spezzata dal dolore del proprio figlio, nuova Pietà chinata sui piccoli schiacciati dal male, dalla desolazione di una solitudine indotta da omertà e negazioni, da vigliacche giustificazioni e coperture. La Chiesa madre che deve ritrovare la tenerezza per consolare e la ferocia nel proteggere.
Nella giornata in cui ieri si analizzava in chiave collegiale e sinodale l’accountability, intraducibile termine inglese che sta ad indicare la responsabilità dei pastori nell’affrontare la crisi generata dagli scandali pedofilia, è emerso prepotentemente il bisogno di ritrovare una visione “materna” che oltre a “rendere conto”, ad analizzare procedure e norme, a denunciare errori e mancanze del passato, a ipotizzare meccanismi di protezione e modifiche normative, riforme strutturali e obblighi di denuncia, mostri la capacità di “compassione” dell’azione pastorale, il bisogno di una presa di coscienza sinodale dell’orrore.
Ci ha pensato ancora una volta il Papa a supplire ad un certo legalismo muscoloso che nasce dal buon proposito di assicurare i carnefici alla giustizia e proteggere il gregge, ma che rischia di sospendere la prospettiva di fede in nome di una giustizia implacabile ed inquisitoria, poco misericordiosa. Lo ha fatto intervenendo per la prima volta durante i lavori, dopo la riflessione della prima delle tre donne inserite tra i nove relatori del summit, Linda Ghisoni, sottosegretario del Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita. Una voce femminile aveva appena rievocato il terribile tradimento di tanti sacerdoti, i “lupi ululanti” che penetrano nell’ovile per disperdere e spaventare il gregge, i pastori che hanno girato la testa dall’altra parte, rammentando il bisogno di dinamismo e di comunione lì dove impera il clericalismo più becero.
Il Papa ha preso la parola per esprimere una sensazione “ecclesiale”. Sentendo una donna parlare difronte a cardinali, vescovi e sacerdoti, ha sentito la “Chiesa stessa parlare”. Francesco ha fatto emergere, con poche breve riflessioni, “la femminilità della Chiesa”, il suo essere sposa e madre. Qualcosa di più che un invito rosa, frutto di femminismo ecclesiastico, ma la percezione che senza lo stile impresso da una donna non si potrebbe parlare del popolo di Dio come di “una famiglia partorita dalla madre Chiesa”, ma solo di un’organizzazione sindacale.
Una logica diversa, un mistero che potrebbe indicare la giusta via di uscita ad una situazione che strozza, in un vortice di crimini e recriminazioni, la missione imprescindibile dei pastori e dei sacerdoti. Bisogna pensare – ha affermato il Papa – la chiesa con le categorie di una donna. Un’indicazione preziosa nel bel mezzo di un vertice che si affanna nelle definizioni di codici e protocolli, ma che non può perdere di vista la missione prima. Offrire, nel travaglio dell’istante, la consapevolezza di una presenza nuova, purificata dal dolore e dalla conversione, avvolta dalla tenerezza e dall’amore.