Una bimba di dieci anni muore di un tumore alla testa e la mamma di 25 anni, Nike, disperata, decide di non farle il funerale. “Non ci credo più – riporta Il Mattino di Padova – ho visto mia figlia soffrire troppo”. Il calvario della piccola Iolanda Deda era iniziato 11 mesi fa. All’inizio sembrava un torcicollo ma poi la situazione è peggiorata rapidamente, fino al crollo, avvenuto il giorno di Natale, con la crisi che ha portato al ricovero definitivo.



La morte di un figlio è sempre assurda, insuperabile, soprattutto per una madre: la madre che ha custodito la figlia nel grembo non sopporta di vedere che la morte le strappi via la figlia con una malattia. Capisco questa madre e la sua scelta. Un dolore così ha ragione e non conosce risposte. Reagire con una crisi di fede, con una scelta di rottura è normale, sano, è persino una forma di preghiera di chi si interroga di fronte al Mistero. Non c’è catechesi che possa spiegare alla madre il dolore innocente di Iolanda.



L’unica ragione per cui spero che mamma Nike riconsideri la decisione di soprassedere ai funerali è che essi, se vissuti con fede, non sono solo un modo per accompagnare con Gesù la persona cara in Cielo, ma sono anche il modo di non restare soli con le medesime domande, con il medesimo dolore, con la medesima rabbia verso un Dio che pare indifferente e che invece vorremmo accanto.

Di fronte ad una ferita insopportabile la solitudine è solo una ferita in più. Senza fede il dolore è una lancia che trafigge e lascia soli; con la fede è una lancia che trafigge ma apre un cammino, a patto di non cercare di comprendere un dolore incomprensibile.



Perché il dolore vero, come l’amore, è incomprensibile. Di fronte al dolore non c’è errore più grande che cercare di comprenderlo con la mente. L’uomo si attacca a tutto ciò che prova. Come cerca di possedere l’amore, così cerca di possedere il dolore ma, quando il dolore è possesso, il cuore non è libero. Quando l’uomo perde qualcuno gli sembra di poter possedere solo il dolore: ci si attacca perché staccarsi dal dolore è come perdere definitivamente tutto.

La svolta è scoprire che il dolore non è qualcosa da capire, ma da vivere. Il dolore ha un’identità, ha un nome, come le persone. E come accade con le persone così accade con il dolore. Si scopre cioè che le persone hanno senso anche se non le conosciamo, anche se non conosciamo il loro nome. Hanno senso se ci si mette nella loro strada e si vive la loro vita.

Il dolore vissuto così è una via che si apre alla Verità e all’Amore del Padre. Che non abbia una meta intellettuale non significa che sia senza meta: ce l’ha ed è esso stesso a condurci per tale via. Il dolore conduce ma per sperimentarlo occorre avventurarsi. Occorre chiudere gli occhi della mente e aprire il cuore per camminare. Noi cerchiamo il senso, Gesù con l’Incarnazione ci indica la Via. Il Suo sangue ci guida al Padre. Il dolore senza la croce di Cristo è come un uccello senza ali, gli mancano i mezzi per riconoscersi nella sua identità perché il senso del dolore che tutti vanno cercando si può solo incarnare. Non è cosa da dire, da scrivere, ma è un mistero che si fa carne. Il dolore vissuto fino in fondo è offerta. Chi offre il dolore, dona tutto, dona la vita perché la vita ha senso solo se la si dona. L’amore ha senso solo se lo si dona. Il dolore ha senso solo se lo si offre.