Che cosa sta, in definitiva, divorando questo nostro tempo? Che cosa caratterizza il dibattito pubblico, le piccole sciocchezze di tutti i giorni, le circostanze politiche ed ecclesiali? Ciò che attraversa trasversalmente il mondo è la sfiducia verso l’altro, la paura dell’altro: io non credo in te, non mi fido di te, ti temo e sospetto di quello che fai e di quello che dici.



È il tempo dell’apparente vittoria del Principe di questo mondo che urla senza ritegno: “Dell’uomo, dell’umano, non ci si può fidare! È inutile che Dio ci scommetta: l’uomo è una grande delusione”. C’è stato un momento nella Bibbia in cui Dio stesso lo ha pensato: succede nella Genesi, al capitolo 6, quando amaramente il Signore constata che “ogni disegno concepito dal cuore dell’uomo non è altro che male”. È in quell’istante che pensa di sterminarlo definitivamente con il diluvio.



Da allora molti sistemi e molti regimi hanno provato a controllare l’umano, a evitare che fosse davvero libero, confidando in fondo che dalla libertà e dalla fiducia nell’umano non possa venire alcunché di bene. In nome di questa convinzione esiste il potere, esistono le strutture, si alimentano le leggi: per tenere a bada l’uomo.

Ed è questo il motivo che soggiace alla convinzione che in una classe di disabili i bambini debbano stare insieme a certe condizioni, secondo certi standard, con certe regole. Non ci fidiamo dei miracoli e pensiamo che l’uomo sia un essere prevedibile.

Invece Rebecca Maria Abate, a soli dieci anni, ha sfidato le regole e le convenzioni della scuola ed è diventata davvero amica di una compagna disabile, al punto da permettere alla bimba di iniziare, a poco a poco, un lento processo di comunicazione e di interazione con tutta la classe. Il presidente della Repubblica pare si sia commosso a leggere questa storia segnalata dal preside delle due piccole. Rebecca, novella Antigone, non ha rinchiuso la propria mossa dentro le rigide regole della città di Creonte, ma è andata oltre, ha osato di più, non ha avuto paura di essere umana.



Come l’umanità di Noè fece ricredere Dio, così Rebecca impressiona e fa ricredere tutti. Mattarella la nominerà Alfiere della Repubblica fra qualche giorno, ad indicare che, quando l’essere umano è guardato con simpatia, la sua libertà è in grado di compiere cose straordinarie. E di guarire tutte le nostre mille disabilità.

E noi? Noi ci fidiamo della libertà dei nostri genitori, dei nostri figli, di nostro marito, di nostra moglie, dei nostri amici? Siamo pronti a scommettere sul loro cuore, sulla possibilità che in loro viva il Bene, che “lasciando che vadano per conto loro” non potranno fare altro – proprio come il Figliol Prodigo – che tornare a casa?

Rebecca è come l’arcobaleno: sta lì a ricordarci che l’umanità merita sempre un’altra possibilità. Saremo così liberi noi da permettere che l’Io di chi ci vive accanto si misuri davvero, e senza paracadute, con la vita? Da questa domanda dipende molto, da questa domanda dipende la scelta tra l’essere spettatori dell’Infinito o gestori del già saputo, curiosi esploratori della verità o astiosi custodi di una rabbiosa nostalgia. Rebecca è lì, muta, ad indicarci a quale livello si giochi oggi la nostra vita. E poco importa che la sua compagna disabile sia di origini marocchine: quel che conta è che in quella classe, per Rebecca, era solo un altro essere umano, un dono di cui rispondere e di cui rendere grazie.