Se un fotografo viene pagato per un servizio fotografico, il suo lavoro, e lo fa male, è giusto che chi lo ha pagato chieda un risarcimento. Il caso in questione però è molto particolare. Durante una Prima comunione il fotografo non ha filmato il momento in cui una bambina riceve la comunione, certamente il momento più importante della cerimonia. Quando la bambina vede che la scena è stata tagliata, secondo l’accusa, “cade in stato depressivo, di ansia e di stress” (che onestamente ci sembra un po’ esagerato). Ma la colpa c’è: nel filmino stesso si sente il fotografo e un suo collaboratore imprecare perché si accorgono di aver saltato la ripresa. Però prende i 70 euro pattuiti con i genitori e non avverte dell’errore fatto. Il fotografo inoltre, quando la cosa viene a galla, accusa il parroco di aver fissato regole molto rigide affinché i fotografi non disturbino la cerimonia, cosa che giustamente succede in ogni parrocchia, per evitare che un gesto sacro diventi una carnevalata.



LA SENTENZA

E’ intervenuto il giudice di pace di Torre Annunziata che ha tenuto conto delle convinzioni religiose della famiglia: “persone molto cattoliche che si vedono negare la grande gioia del ricordo”, decisione questa molto interessante perché tiene conto appunto delle convinzioni religiose delle persone. Immolar lo accusa di slealtà nello svolgimento del suo lavoro. E’ stato condannato dunque a restituire i 70 euro ricevuti in pagamento; a pagare 1570 euro; altri 1500 euro ai genitori in quanto esercenti la potestà genitoriale sulla minore: 1700 euro più spese legali a versare il 50% del totale alla parrocchia che lui ha ingiustamente accusata. Insomma un servizio fotografico costato caro.

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