In pochi giorni, nel nostro Paese, due casi di omicidio volontario hanno beneficiato del dimezzamento della pena, prendendo in esame lo “stato d’animo” dell’assassino. Entrambi i delitti sono stati infatti giudicati come altrettanti effetti incontrollabili scatenati dal comportamento delle vittime. Provocati cioè da una passione incontrollata la cui responsabilità è anche di chi l’ha proditoriamente alimentata: in entrambi i casi le due donne uccise.



Si legge infatti su una delle due sentenze che “L’uomo non ha agito sotto la spinta della gelosia, ma come reazione al comportamento della donna, del tutto incoerente e contraddittorio, che l’ha illuso e disilluso allo stesso tempo, è stato mosso da un misto di rabbia e disperazione, profonda delusione e risentimento, ha agito sotto la spinta di uno stato d’animo molto intenso, non pretestuoso, né umanamente del tutto incomprensibile”. In pratica la donna da vittima diventa provocatrice e quindi corresponsabile del proprio assassinio. Detto in termini brutalmente diretti: se lei non lo avesse offeso e umiliato, lui non avrebbe perso il “lume della ragione”, quindi la colpa è anche di lei. Nell’altro caso l’omicida dichiara “Ho perso la testa perché lei non voleva più stare con me. Le ho detto che lei doveva essere mia e di nessun altro. L’ho stretta al collo e l’ho strangolata” e i magistrati hanno riconosciuto valida la spiegazione dello psichiatra che ha parlato di una “soverchiante tempesta emotiva e passionale”.



In un’epoca nella quale non c’è nulla di più riprovevole della molestia sessuale dell’uomo verso la donna, tali giudizi sono tuttavia incomprensibili solo in apparenza. In realtà, l’affinità con l’ideologia dominante nella nostra epoca è ben più reale di quanto non si creda e la sentenza non proviene affatto dalla logica di un maschilismo oramai – almeno così si spera – definitivamente sotterrato (uno dei collegi giudicanti era formato da sole donne), bensì da una delle conseguenze del peggiore sociologismo e del peggiore psicologismo attualmente in circolazione.



Per questa scuola di pensiero l’uomo e la donna non sono solamente due esseri razionali: esiste in loro un lato oscuro, una componente aggressiva che generalmente è sotto controllo, e che in casi particolari – cioè per motivi che possono attenere tanto alla biografia personale del soggetto, quanto alla sua condizione sociale e alla sua marginalità economica, quanto ancora all’effetto di assunzione di farmaci e quant’altro, può far diminuire le capacità di controllo su sé stessi e può scatenare una reazione della quale lo stesso soggetto, una volta rinvenuto in sé, non sa darsi ragione.

Una tale logica, dove il risentimento la fa da padrone, è uno dei leitmotiv dominanti al quale si ricorre sempre più spesso per spiegare i comportamenti di ogni genere. Un soggetto non padrone delle proprie azioni e quindi, proprio per questo, solo in parte responsabile dei danni che compie è evocato molto più spesso di quanto non si creda, e anche in ambiti nei quali è manifestamente improbabile. Non a caso si è evocata la marginalità sociale per comprendere – almeno in parte, ovviamente – il terrorismo jihadista. Qualcuno tentò di spiegarmi una volta che è purtroppo normale che i giovani immigrati, venendo da zone in cui vige una forte segregazione di genere, non possano mettere piede nel disinibito mondo occidentale senza provare impulsi difficilmente controllabili. In pratica l’uomo è prigioniero della propria gabbia psichica e culturale. Da lì non sa né può uscire se non con un lungo lavoro rieducativo.

Questa scuola di pensiero ha pertanto eliminato i condizionamenti della razza per sostituirli con quelli dei “riflessi culturali” socialmente acquisiti e quando quest’ultimi sono fuorigioco bastano le “tempeste emotive”. L’uomo è prigioniero: se non lo è della propria cultura, lo è dei propri istinti. In sostanza al posto della ragione c’è lo “stato d’animo” che la ragione evidentemente non controlla e – stando almeno alla sentenza dei giudici – non può controllare che in modo parziale. La colpa ricade pertanto, almeno in parte, anche su chi provoca.

Per questa strada tutto trova una spiegazione semplice ed elementare: il risentimento, la rabbia, l’invidia e la gelosia. Tutto è frutto di emozioni sconsiderate, tempeste emotive che, naturalmente, sono il frutto di cause pregresse e talvolta l’esito di provocazioni costruite ad arte; mai di scelte consapevoli. C’è quindi una relazione precisa e per nulla banale tra chi, riconoscendo il peso delle emozioni, dimezza la pena a un assassino e una temperie culturale che, sdoganando il soggetto da ogni dovere verso la ragione, finisce per non avere più gli strumenti per frenare gli squilibri più profondi. Un’intera civilizzazione nata con il principio di educare l’uomo al controllo dei propri istinti e alla responsabilità delle proprie azioni sembra così arretrare giorno dopo giorno.