Prosegue la rassegna dei “casi irrisolti” affrontati dal giornalista Fabrizio Peronaci sul Corriere della Sera e il nuovo “obiettivo” si fissa sulla povera Francesca Moretti, la sociologa avvelenata con cianuro nell’ormai lontano 22 febbraio 2000: sull’ambulanza quel pomeriggio la vittima si contorceva in preda a spasmi tremendi e a tenerle la mano fu un’amica e coinquilina, salita anche lei sul mezzo di soccorso dopo averla trovata in quelle condizioni. Morì due ore dopo e da lì cominciò il tremendo ed efferato “cold case” arrivato fino ai giorni nostri: l’assassinio ancora non c’è e l’unica vera imputata – proprio l’amica Daniela Stuto – è stata assolta dopo tre lunghi ed estenuanti gradi di giudizio. Il caso lo si ricorda più che altro col nome di “delitto della minestrina” visto che per gli investigatori fu proprio in una minestra che venne sciolto il cianuro e servita alla povera e ignara laureanda in psicologia all’epoca 26enne. In un primo momento si sospettò proprio dell’amica e coinquilina, per una non mai motivata «gelosia saffica» per alcune telefonate che Francesca teneva con altre amiche. 15 mesi ai domiciliare e soprattutto tre gradi di giudizio allontanarono per sempre i dubbi su Daniela e riaprirono pesantemente il caso d’omicidio. Chi ha ucciso dunque Francesca Moretti?



GLI INDIZI NON CONSIDERATI

Oggi Peronaci prova a contattare quella ragazza assolta ma per sempre “segnata” dall’accusa infamante di aver ucciso la sua amica: «sono certa che comprenderà il mio riserbo anche in questa occasione. Sono 20 anni che desidero quell’oblio che devo a me stessa e principalmente alle persone a me care. Un saluto e buon lavoro», è la risposta data al giornalista da Daniela Soto che però prova comunque a riannodare i fili di quel caso mai risolto e zeppo di errori. Primo tra tutti, la mancanza grave dell’ospedale che ha tentato di salvare Francesca Moretti: non ha riscontrato subito l’avvelenamento da cianuro, scoprendolo solo mesi più tardi. Come giustamente sottolinea l’avvocato della famiglia Moretti ai taccuini di Peronaci, «l’appartamento non fu sequestrato e gli elementi che potevano chiarire l’accaduto, le stoviglie, il pentolino, lo stato dei luoghi nell’immediatezza, svanirono». Sono ben 10 gli indizi-prove non prese in considerazione durante il processo, dove ad esempio non presero mai parte i possibili filoni paralleli, dalla vendetta-gelosia di una donna rom per una presunta tresca passata di Francesca con un giovane rom del campo Casilino 900, fino al rapporto con l’unico suo amore Graziano col quale sarebbe dovuta partire proprio il giorno dopo l’atroce morte. «Dal diario di Francesca, che spinse la madre a dire «me l’hanno uccisa» (quaderno mai finito nel fascicolo) alla fiala vista sotto il letto e non sequestrata; dalle chiavi di casa rubate a Mirela Nistor, la coinquilina romena, alla visione di «un’ombra» in corridoio. Senza dimenticare altri tasselli, dal bicchiere sul comodino alle indagini molto parziali sulla provenienza del cianuro, cercato solo in Sicilia, terra d’origine dell’accusata», sono tutti i punti ancora irrisolti in una vicenda che l’avvocato della famiglia Moretti definisce quantomeno sospetta: «La famiglia chiede alla Procura di Roma un atto di coraggio: riprendere in mano gli atti e riaprire l’inchiesta. Un killer incallito e spietato come quello che ha avvelenato Francesca non può e non deve restare in libertà, ne va della sicurezza di tutti» insiste l’avvocato Giovanni Galeota al CorSera.



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