Ricorda la vicenda di Torben, il protagonista del romanzo L’uomo che voleva essere colpevole di Enrik Stangerup, il pentimento quasi angoscioso di un padre, il giornalista brasiliano Paulo Antonio Briguet che in una lettera destinata al figlio mai conosciuto e che per colpa sua non ha mai visto la luce, riversa il dolore inconsolabile del rimorso. Dura da 27 anni il suo rimpianto acuto per non aver agito diversamente, per aver commesso un delitto irreparabile che ancora gli strazia il cuore in ogni ora, in ogni nuovo giorno.
È raro, come è già stato notato da chi ha raccolto i giorni scorsi la notizia, che la condanna a morte di un figlio finisca col pesare così atrocemente sull’anima di un padre: solitamente sembrano essere le madri ad avvertirne la ferita più o meno profonda, lacerante, riconoscibile. Il suo “sfogo” paterno colpisce: è vibrante e appassionato, ma contrassegnato da una lucidità tagliente, da una consapevolezza del male commesso che trasuda in ogni riga del suo scritto.
Briguet nel suo immaginario dialogo con il figlio registra con sgomento tutto quello che gli ha negato insieme alla luce, al respiro, al tempo e alle occasioni che in ogni vicenda umana si susseguono in infinite esperienze e percezioni del reale, ma non si lascia irretire da un rimpianto sterile: supera l’onda delle emozioni e si rende conto che la vita di suo figlio, di un essere chiamato all’esistenza, altro da sé, non dipende esclusivamente dalla sua decisione.
Questo padre, pur non arretrando dalla propria drammatica responsabilità che lo fa sentire fino in fondo colpevole della sua sciagurata decisione – lui stesso la definisce un “crimine” -, riconosce di essere limitato, sproporzionato persino di fronte all’implacabilità del suo stesso rimorso, si riconosce cioè totalmente impotente di fronte all’autore della vita: “Ti ho negato il diritto di nascere. Non ti ho negato solo quello che non ti potevo negare: la passione e la resurrezione. Le hai già avute” confida.
E in questo riconoscimento che assomiglia a una resa di fronte al predominio dell’essere sul nulla, il suo dolore non viene affatto mitigato dal tentativo di attenuare la propria colpa, ma si trasforma in implorazione, in attesa di un compimento non affidato alle sole sue forze. Lo struggente desiderio di una macchina del tempo che possa far retrocedere gli istanti fino a fermare quello dell’uccisione del figlio appena concepito, non esiste, è un sogno illusorio e disperante, come accenna Briguet all’inizio della sua lettera. Ma esiste invece Colui che della vita è il creatore e che a ogni essere dona il respiro e ogni cosa: “Figlio mio, il giorno in cui ci incontreremo…ti abbraccerò. E la mia prima parola sai già quale sarà: ‘Perdono’.” Che sarebbe da scrivere “per dono”.