Sono diverse le considerazioni che si potrebbero fare attorno all’episodio del dirottamento dello scuolabus pieno di ragazzini avvenuto alle porte di Milano due giorni fa, e che ancora oggi lascia molte famiglie sgomente per la capacità che il terrore e la violenza hanno di entrare nella quotidianità della vita, ma non è questo l’elemento che colpisce di più in ciò che è accaduto.



Quello che sicuramente lascia più increduli in una circostanza come questa è il fatto che l’attentatore – qualunque motivo lo animasse: gli inquirenti stanno cercando di capire quali fossero i suoi vero motivi – l’attentatore è stato armato dalle nostre parole. Ciò che infatti ha animato Ousseynou Sy non è stato un piano ideologico e neppure l’organizzazione terroristica, ma una propaganda avvenuta attraverso le parole che quell’uomo aveva potuto ascoltare in rete, per radio o per televisione: sono le parole che hanno reso quell’uomo violento; sono le cose che ha ascoltato che lo hanno reso un criminale, un terrorista e un potenziale assassino.



Questo fa paura, perché è come se ci mettesse di fronte per la prima volta al peso e al valore che le parole possono avere nella vita di ciascuno di noi: viviamo in una società dove la parola è considerata per la quantità di volte con cui viene pronunciata e non per le conseguenze che essa può avere nella vita delle persone. Eppure tutti soffriamo per parole che ci vengono dette e tutti facciamo soffrire con le parole: le parole oggi sono lo strumento di morte e di violenza più diffuso del genere umano; attraverso le parole gli uomini si fanno del male, attraverso le parole gli uomini alimentano il male, attraverso le parole gli uomini inventano pensieri che strutturano realtà alternative, verità alternative di cui la mente finisce per essere ostaggio e a cui la mente sembra non poter fare altro che obbedire e rispondere.



Per questo l’attentato di Milano rappresenta per il nostro paese una novità, non tanto per quello che poteva essere, quanto per quello che è stato: un avvenimento frutto della propaganda, un avvenimento frutto della contrapposizione sterile che in questi mesi ha visto affrontarsi a più riprese schieramenti che hanno fatto delle parole e della forza delle parole il loro cavallo vincente, senza pensare alle conseguenze che tali suoni potevano avere per tutti.

Quello che dunque colpisce è il non rendersi conto che quei bambini, quei ragazzi che erano a bordo di quel mezzo, stavano per diventare vittima delle nostre parole, stavano per essere vittima dei nostri luoghi comuni, stavano per diventare le vittime del mondo che noi stessi abbiamo costruito e che, con i nostri slogan, cerchiamo di allontanare, senza renderci conto che in realtà – giorno dopo giorno – lo avviciniamo sempre di più.

Siamo noi i primi artefici della violenza del nostro tempo e siamo noi che creiamo la violenza con le nostre parole perché sono le parole a creare il male, sono le parole a insinuarsi nelle menti più deboli, sono le parole a strutturare dentro di noi ragionamenti e mentalità che ci portano all’odio e al desiderio di trasformare in azione il dolore e i risentimenti che sentiamo dentro.

Non è mai troppo tardi per fermarsi: cogliere il peso delle parole che circondano la nostra vita e che la rendono a volte così difficile e così impegnativa da rintracciare è un obiettivo sempre a portata di mano. Coloro che sono sfuggiti alla morte in realtà rischiano ogni giorno la stessa morte attraverso le parole che quotidianamente contribuiscono a costruire il clima di violenza interno alla nostra società: tutti noi abbiamo un’immensa responsabilità rispetto a quello che è accaduto e abbiamo un immenso potere che ci deriva dalla possibilità che ciascuno ha di scegliere la prossima parola con cui commenteremo, racconteremo ciò che c’è nella nostra vita. E che non merita mai di essere sprecato.