Si sta giocando un amaro contrasto, un vero e proprio scontro, sulla famiglia. Come se la questione fosse pertinenza di tifoserie isteriche incapaci di riflettere pacatamente su un bene, che è bene di tutti, perché sta all’origine di ciascuno, ne è il marchio costitutivo. E questo indipendentemente dall’esperienza positiva o negativa che ciascuno ha vissuto e perfino dalle intrinseche contraddizioni, dai fallimenti che spesso la accompagnano.



La prima grande sconfitta della famiglia è la sua ideologizzazione, l’averla strappata dal terreno misterioso dell’esperienza e della storia, e averla condotta sul terreno di uno scontro al livello più basso: quello di una politica nana, incapace di guardare al bene comune, al bene di tutti e al bene di ognuno.

L’isteria con cui i detrattori dell’incontro di Verona e di qualsiasi altra manifestazione pubblica in difesa della famiglia affrontano la questione, il linguaggio violento, l’aria di superiorità culturale e antropologica con cui ne parlano, mostrano innanzitutto che vi è una sostanziale paura della famiglia, paura della sua forza pacificatrice, inclusiva, regolativa. Paura che essa possa intaccare il castello di diritti acquisiti e per definizione moderni, possibili e impossibili, con la sua solidità e forse persino con la sua normalità.



Ma anche chi brandisce la spada della difesa della famiglia come arma di attacco la riduce a fronzolo ideologico, a “partito”. E così si contribuisce ingenuamente alla sua relativizzazione, alla sua riduzione a una delle tante possibili forme di società umana di primo livello.

La famiglia è invece il primo, radicale epos, la prima forma narrativa della bellezza del vivere. E su questo terreno occorre tornare. Innanzitutto riaprendo le case, traendo le famiglie, vecchie e nuove, dalla solitudine cosmica che stanno vivendo, riprendendo la narrazione interrotta.

Anche la Chiesa è afona su questo terreno e non salva dal pericolo di una sua riduzione al “partito” della famiglia, tra l’altro servito con una certa svogliatezza. Non basta cautelarsi dietro una dichiarazione, perfino del Papa stesso, o l’affermazione perentoria di questo o di quello. La Chiesa deve recuperare la consapevolezza che essa è il terreno – oggi forse l’unico terreno – su cui la famiglia può contare per vivere la sua bellezza, pur nelle difficoltà che la storia impone. Ma soprattutto – come dicevano due Papi santi quali Giovanni XXIII e Paolo VI – che senza famiglia non esisterebbe la Chiesa, che la famiglia è la cellula originaria della Chiesa stessa.



Torni, la Chiesa, a celebrare la bellezza della famiglia, a cominciare dai suoi percorsi formativi, che oggi sono vissuti dai più come un’imposizione per poter usufruire per un’oretta della chiesa addobbata a festa. Torni a essere vicina alle famiglie come al suo nucleo germinativo, torni ad aprirsi alla creatività e al realismo della vita familiare.

Finché essa resterà confinata nel piccolo recinto di uno dei tanti pride, le resterà appiccicata l’etichetta di macchietta esistenziale, molto vetero e niente affatto affascinante.