Il famigerato caso “Why Not”, l’inchiesta condotta dall’allora pm di Catanzaro ed oggi sindaco di Napoli Luigi de Magistris, a distanza di 12 anni continua a tenere impegnato il Tribunale di Salerno (competente per i reati commessi o subiti dai magistrati del distretto giudiziario di Catanzaro). 

L’ultima condanna, arrivata in questi giorni, riguarda due dei personaggi che divennero famosi, loro malgrado, speculando su quell’inchiesta e su quel caso mediatico giudiziario, Gioacchino Genchi e Aldo Pecora, ritenuti colpevoli di diffamazione nei confronti del magistrato catanzarese Salvatore Murone.



Genchi è poliziotto palermitano, all’epoca dei fatti in aspettativa perché impegnato in un sindacato di due-tre iscritti e allo stesso tempo super consulente della procura di Catanzaro. E’ stato oggetto di controverse vicende giudiziarie e disciplinari per aver creato, con i dati delle varie consulenze tecniche che gli venivano affidate, un gigantesco database contenenti i dati delle telefonate di migliaia di persone.



Aldo Pecora, oggi giornalista e blogger hi-tech, è un giovane che il giorno dopo l’omicidio del compianto Franco Fortugno, avvenuto nel seggio di Locri durante le primarie dell’Unione del 16 ottobre 2005, fondò il movimento “Adesso ammazzateci tutti”. Pecora trovò notorietà proprio affiancandosi a de Magistris quando a questi venne avocata l’inchiesta Why Not perché il magistrato, tra i tanti errori marchiani compiuti, avrebbe anche dovuto astenersi dall’inchiesta e rimetterla al capo della procura o ad un altro collega quando iscrisse nel registro degli indagati l’allora ministro della Giustizia, Clemente Mastella. Guardasigilli che aveva mandato gli ispettori del ministero nella cittadina calabrese quando de Magistris aveva iscritto nel registro degli indagati il premier in carica, Romano Prodi, per la fantasiosa vicenda della presunta “Loggia di San Marino”, smentita mesi dopo da alcuni degli stessi accusatori, ma rimasta per anni negli atti giudiziari e nell’immaginario collettivo.



Genchi e Pecora sono stati condannati per aver ripreso, nei loro blog, un articolo che ipotizzava un complotto nei confronti del magistrato della Dda di Catanzaro, Marisa Manzini.

Pecora riportò quell’articolo l’8 aprile 2009, qualche giorno dopo che la Manzini aveva chiesto e ottenuto l’arresto dell’imprenditore lametino Salvatore Mazzei per una vicenda legata ai lavori dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria. Qualche tempo prima lo stesso magistrato Manzini finì in un’interrogazione parlamentare del senatore piemontese Giuseppe Menardi in cui si affermava che il magistrato avesse comprato una villa a Lamezia proprio da Mazzei. Il blog di Aldo Pecora ipotizzò che ispiratore dell’interrogazione fosse stato proprio il magistrato Murone, indicato – erroneamente – quale cognato di Mazzei. La Manzini, tra l’altro, interrogata a Salerno nel 2008, confermò di abitare in quella casa ma chiarì che era stata acquistata ed era intestata al fratello del marito. Il caso fu comunque archiviato.

La responsabilità di Gioacchino Genchi è riferita invece ad un post del 16 ottobre 2010, nel suo blog “Legittima difesa”. Genchi cade in un certo modo vittima di sé stesso. Le sue consulenze milionarie a Catanzaro e ad altre procure, infatti, nella maggior parte dei casi, non erano riferite al contenuto di intercettazioni ma al semplice incrocio tra contatti telefonici (se Tizio parla con Caio, Caio parla con Sempronio, tra Tizio e Sempronio ci sono contatti ricorrenti; tali contatti, con il metodo di de Magistris, diventavano poi ipotesi di partecipazione alla medesima associazione a delinquere): Genchi scrisse nel blog che Murone, due mesi prima della sentenza che aveva assolto tale Francesco Iannazzo per l’omicidio dell’avvocato lametino Torquato Ciriaco (avvenuto nel 2002), avrebbe sentito dal suo telefono di casa il cugino dell’imputato, ovvero il boss Vicenzino Iannazzo. In realtà la telefonata avvenne tra due ragazzini, compagni di classe alle scuole medie; per l’omicidio Ciriaco sono ancora oggi a processo un collaboratore di giustizia, Francesco Michienzi, che si è autoaccusato e i suoi presunti correi Tommaso Anello, Vincenzino Fruci e Giuseppe Fruci, tutti della cosca Anello di Filadelfia (Vibo Valentia) e non della cosca Iannazzo. 

Una seconda accusa di Genchi, nei confronti di Murone, riguardava una presunta ingerenza nelle indagini riferite all’omicidio dell’imprenditore Antonio Longo, avvenuto sulla strada che porta da Lamezia a Catanzaro. Murone, in qualità di magistrato della Dda, si recò sul posto così come vi arrivò un magistrato della procura di Lamezia. I primi rilievi furono fatti sotto la direzione della procura di Lamezia che poi trasferì successivamente il fascicolo alla Dda quanto emerse il presunto coinvolgimento di clan della zona di Soverato.

Genchi addebitò inoltre a Murone la figuraccia della magistratura catanzarese nella gestione delle indagini sull’omicidio del dirigente di polizia in pensione Salvatore Aversa e della moglie Lucia Precenzano avvenuto a Lamezia Terme il 4 gennaio 1992. In base alle accuse di Rosetta Cerminara, furono arrestati l’ex fidanzato di questa Renato Molinaro e Giuseppe Rizzardi. La Cerminara fu insignita di una medaglia al valor civile dal presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Molinaro e Rizzardi risultarono completamente estranei e furono assolti, in appello; nel 2000 il duplice omicidio fu confessato da due esponenti della Sacra corona unita, Stefano Speciale e Salvatore Chirico, che avevano agito per conto delle cosche lametine. In realtà il magistrato Murone non aveva mai partecipato all’indagine, condotta dall’allora capo della procura catanzarese Mariano Lombardi e da un altro sostituto.

Quella di Genchi e Pecora non è la prima condanna, in sede penale o civile, che scaturisce dal magma mediatico dell’inchiesta Why Not: tante ce ne sono state e altre ne arriveranno, ma soprattutto decine sono state quelle evitate grazie ad una lettura “benevola” da parte di alcuni magistrati o alla inesorabile prescrizione.