E ritorna, come le mimose, l’8 marzo, la festa della donna. Adoro le mimose, ma inizio a starnutire prima della fioritura, e, sarà un caso, sono allergica anche all’8 marzo. Perché è una data che ricorda una tragedia, e non la considero beneaugurale. Perché è stata colorata troppo di ideologia, da sempre e tuttora, a giudicare dallo sciopero di cui non colgo il nesso con la difesa dei diritti delle donne. Sarò retrò, ma a me interessano i diritti delle persone, tutte, uomini, donne, bambini. E qualche volta gli slogan per i diritti degli uni contrastano con i diritti degli altri.
Non mi piacciono, mi scandalizzano, vorrei dire ovviamente, le perduranti disparità che ancora relegano le donne a categoria protetta. Le donne guadagnano di meno, non accedono a posti di responsabilità, o comunque in misura minore, e sempre viene sottolineata con enfasi la loro riuscita, come se si trattasse di eccezioni da prima pagina. E in effetti le prime pagine ci propongono troppo spesso titoloni su donne scienziate, imprenditrici, sportive, eccetera, che, guarda caso, primeggiano e ottengono riconoscimenti speciali. Da fine febbraio abbondano. Benvenute, benemerite, ma mi infastidisce che si sottolineino con stupore i loro alti profili. Anche perché nelle stesse prime pagine quasi quotidianamente si sparano notizie di nera in cui le donne sono protagoniste perché vittime, di una violenza possessiva e brutale: oggetti, in balia della forza fisica, scudi, esche, pretesti, per imporre l’eterno refrain del falso amore: tu sei mia.
Non sopporto i possessivi, quando si appoggiano alla persona, neanche se “mia” è adattato alla prima persona singolare: non sono mia, sono più felice se spartisco il mio essere, liberamente, con chi amo. Per ogni donna, checché ne dica, l’amore più grande è donato ai figli. E mi piacerebbe che la festa delle donne fosse anche un po’ festa delle madri, che sono le donne più provate, più misconosciute nel loro prezioso ruolo educativo, quindi sociale. Senza nulla togliere a studentesse, politiche, intellettuali, sindacaliste e donne di qualsivoglia categoria che giustamente lottano per una parità reale. L’essere madri, che riguarda tante di loro, non dovrebbe essere considerato un accidente, né un diritto, né un problema.
Madri da accompagnare perché possano svolgere il lavoro che amano, o che devono fare, senza ritorsioni o sguardi pietosi; madri che possano lasciare senza esborsi esosi i loro figli in custodia, in asili alla potata di tutti dove possibilmente non si tormentino i bambini. Madri che abbiano il giusto stipendio per permettersi non solo di tirare avanti, con i mille impieghi che sono loro affidati (o scaricati): infermiere, assistenti sociali, cuoche, sarte lavandaie, manager, babysitter, colf. Ma anche di poter vedere un film, andare una volta a teatro, permettersi un vestito, una trousse di cosmetici, per sentirsi belle e curate, non asini da soma.
Suppongo che questi pensieri banali si riferiscano a una concezione del femminile antiquata, poco rivoluzionaria, riduttiva. Credo tuttavia che sia questo il desiderio più semplice e schietto di milioni di donne, che non si sentono rappresentate in nessun proclama o manifestazione.