La domanda è di quelle – allo stesso tempo – “pirandelliane” o solleticanti la sensibilità di Leonardo Sciascia. Due grandi pensatori dello scetticismo pessimista siciliano. Ed è la seguente: al Sud di imprenditori ne ammazza di più la mafia o la burocrazia delle interdittive antimafia?
Una questione d’obbligo dopo il suicidio di Rocco Greco di Gela. Un industriale che si è tolto la vita dopo avere denunciato il racket del pizzo ed essere a sua volta stato calunniosamente “controdenunciato” dagli esponenti dello stesso. Infatti per lui è scattata in automatico, e senza contraddittorio, la trappola dell’interdittiva. E in poco tempo è rimasto senza la titolarità della propria ditta e con gli operai tutti per strada.
Con uno Stato del genere – che si comporta come si comportano le istituzioni immaginate da Collodi nella fiaba di Pinocchio – che bisogno c’è dell’anti-Stato? Si parla di centinaia di provvedimenti ai danni di imprese in Campania, Puglia, Basilicata, Calabria e Sicilia. Con migliaia di posti di lavoro persi e con incalcolabili e gravissime conseguenze sociali.
I dati, assai parziali, noti sono forniti dalla Dia (Divisione investigativa antimafia) e coincidono con i numeri delle inchieste penali svolte dall’organo di polizia giudiziaria. Le altre cifre però, che sono enormi, nessuno le conosce.
Le ultime statistiche, relative al solo primo semestre del 2018, parlano di 28 casi per la Campania, 21 per la Puglia, 2 per la Basilicata, 87 per la Calabria e 34 per la Sicilia. E di 241 per tutto il resto d’Italia. Ma dal Tar, che accoglie i ricorsi di coloro che si sentono ingiustamente colpiti da questo provvedimento amministrativo, che viene emanato senza possibilità di difendersi da parte dell’imprenditore colpito, arrivano cifre che parlano di oltre 2mila ricorsi pendenti con medie di accoglimento dai 30 ai 90 all’anno. Solo in Sicilia negli ultimi due anni sarebbero state emanate 399 interdittive. In Calabria anche di più. Ma le prefetture amministrano il tutto senza alcuna trasparenza e quindi i numeri ballano allegramente sui vari mass media.
Solo il Partito radicale transnazionale che fu di Marco Pannella (ma anche l’ex senatore Carlo Giovanardi) ha avuto il coraggio di fare una battaglia mediatica su questo istituto paradossale che sembra fatto apposta per favorire la criminalità invece che per contrastarla, come proprio l’episodio di Gela sembra dimostrare. E questo tacendo le nefandezze – e gli episodi di corruzione – che avvengono da anni all’ombra dell’amministrazione di questi beni dati in gestione a funzionari dello Stato. Gestione che spesso coinvolge avvocati che sono figli o congiunti di magistrati antimafia un po’ in tutta la penisola.
Ora si chiedono modifiche. Una sola, a stringere, semplicissima: trasformare l’istituto dell’“interdittiva antimafia” in provvisoria “sospensione” dalla stipula di contratti e dall’erogazione di finanziamenti pubblici. Il tutto sul presupposto di una futura misura di prevenzione. Ma se quest’ultima non venisse, in seguito, richiesta e concessa – in regime di contraddittorio davanti a un giudice terzo ed entro un termine preciso, o se fosse respinta –, il provvedimento in questione dovrebbe venire revocato con effetto retroattivo.
Ma con l’aria forcaiola che tira i Radicali, e lo stesso Giovanardi, dovranno per forza di cose aspettare tempi più propizi.