Ieri, in apertura di udienza al processo bis in corte d’Assise per la morte di Stefano Cucchi avvenuta nell’ottobre del 2009, è spuntata una verità terribile: i carabinieri avevano una relazione segreta sulle cause della sua morte. Esiste, cioè, una relazione di cui i legali di Cucchi avevano invano fatto richiesta, e che non erano mai riusciti ad avere. In quella relazione preliminare segreta si sottolineava che la lesività delle ferite non consentiva di dire con esattezza quali fossero le cause della morte, ma ciò nonostante, i carabinieri, pur sapendo del documento, escludevano un nesso di causalità delle ferite per le botte con la morte.
Chi si lamenta che la nostra società sia inflazionata dalle foto, si ricordi che quella cultura dell’omertà sarebbe ancora una volta riuscita a nascondere la verità, se non fosse stata messa in crisi da quelle orribili foto di Stefano che tutti conosciamo a memoria perché sono state condivise all’infinito dai nostri cellulari. Ricordiamoci che se non ci fosse stata la possibilità di condividerle con tutti, quelle foto tessera sarebbero sepolte negli archivi polverosi di qualche stanza e Ilaria Cucchi avrebbe gridato inascoltata. Avrebbe vinto la congiura del silenzio e del potere.
Un conto è denunciare a parole, un conto è dire “hanno ammazzato mio fratello di botte: guarda qui le foto e falle girare”.
Perché una foto non è solo una foto. Tutt’ora non c’è nessun articolo, nessun servizio televisivo che parli di Stefano Cucchi dove non appaiono quelle foto. Le foto di quegli occhi lividi, di quel volto tumefatto dalle botte, sono diventati un grimaldello che ha aperto e scardinato gli steccati. Ciascuno di noi ha visto quelle foto, non solo gli avvocati o i medici o i giudici legali. Per questo quelle foto parlano. Tu puoi salvare la foto di Stefano e quella foto parla e parla e parla e parla e non smette. E non dimentichi più. Parla senza bisogno di conoscere la grammatica, di avere una laurea, di possedere un tesserino da giornalista. Dice la verità, la peggior verità, che è quella vera, quella senza commenti. E quindi il dolore di Ilaria Cucchi smette di essere un dolore privato, personale, quello di una sorella affezionata, e diventa una storia emblematica di tutti gli abusi che le forze dell’ordine sono in grado di perpetrare in carcere nel nostro paese. Immaginiamo che Stefano fosse morto solo qualche anno prima del 2009, immaginiamo una data nella quale ancora non fosse possibile diffondere le foto, e tutto sarebbe insabbiato.
Con quella foto che ti ritrovi ovunque è evidente che un ragazzo pestato a sangue è diverso da uno che è inciampato. Quella foto fa vedere che il volto di un morto ammazzato dice che prima delle botte eri vivo e dopo non lo sei più. Dice la verità, che se la scrivi è impossibile da dire, da far galleggiare sulla marea di parole, ma se la vedi perché tua sorella pubblica le foto di come ti hanno ammazzato di botte, puoi solo pensare al Cristo morto del Mantegna. La sua faccia, la sua morte, umana come solo Dio sa esserlo, è nelle foto di Stefano Cucchi. Cucchi è il Cristo morto del Mantegna. Il nuovo modo di leggere la realtà, è guardarla. Non è un modo nuovo, è vecchio. Ma ce l’eravamo perso tra le righe dei comunicati. Se la realtà la guardi, se lasci parlare il corpo, il corpo di un morto ti dice che è l’ora di rompere l’omertà dei potenti per arrivare alla verità di Dio. Che poi è quella dell’uomo che sa inventare le foto e gli smartphone per condividere, non solo le sciocchezze, ma anche la verità.