Facciamola corta. Esiste un diritto innato a conoscere a qualsiasi costo e a diffondere notizie che uno Stato ritiene segrete e importanti per la sicurezza dei suoi cittadini? Il caso Assange, dal punto di vista della legge e della morale, sta nella risposta a questa semplice domanda.
Elementi per una risposta.
Se il codice penale di un Paese prevedesse di non sanzionare chi sfonda cassaforti informatiche o di acciaio per impossessarsi di dati giudicati delicati dall’autorità legittima, avallerebbe in ipotesi minima il furto con scasso e più crudamente autorizzerebbe né più né meno il tradimento della Patria.
Certo, un uomo può decidere sulla base di un suo giudizio ponderato di dover diffondere notizie e dati utili alla salvezza dell’umanità o di una singola persona inerme. Oppure perché ritiene il potere regnante tirannico e desidera mostrare “di che lacrime grondi e di che sangue” a nome dei perseguitati. Chi pensa in retta coscienza così ha addirittura il dovere di non obbedire alla legge, perché superiore alle norme scritte c’è l’imperativo etico che impone di non fare il male e di non collaborare con il potere che lo incarna.
Nel caso di Assange non vedo tutto questo meraviglioso altruismo. Ha un suo principio che qui non discuto: egli ritiene che la trasparenza sia un valore assoluto e imponga il disvelamento di qualunque appunto, nota, ordine di un ministro agli ambasciatori e delle relazioni che essi intrattengono con i governi stranieri e le forze di opposizione. Ma se la pensi così e ti ritieni un Robin Hood, poi non ti devi lamentare che lo Sceriffo di Nottingham ti arresti. Ma qui non ci pare di intravvedere alcun eroe e neppure l’allegra brigata con frate Tuc. Non è che ciascuno ha il diritto di trasformare la propria morale in legge universale.
Detto questo, si sarà capito che Assange mi è antipatico. E mi sembra, ora che è stato arrestato, tratto con la forza delle polizia inglese dall’Ambasciata dell’Ecuador, un parlare un po’ da vigliacchi. Non bisogna mai godere della prigione altrui, e dunque non mi compiaccio di manette e simili, ma costui ha esibito troppo i suoi dolori e le sue catene d’oro per guadagnarsi slanci di devozione. Del resto in questi sette anni chiuso in un appartamento sia pure in un bel palazzo ha vissuto da detenuto, e prevedendo l’arresto – dopo che il governo di Quito gli aveva revocato lo status di rifugiato – ha messo su una barba da Edmond Dantès sull’Isola di Montecristo per dare credibilità alla sua presunzione di essere una vittima dei prepotenti.
Credo che il processo in Virginia – se Assange verrà estradato – sarà uno spettacolo. L’avvocato dell’accusa farà il conto di quanti morti e danni le sue propagazioni di telex segreti abbiano fatto, la difesa sosterrà il diritto superiore di sapere e far sapere. Rischia 5 anni. A suo favore si muoverà mezzo mondo, faranno un altro film, scriverà nuove memorie. Reggeremo il colpo.