Julian Assange è un riciclatore di veline per conto terzi, per favore non trasformiamolo anche noi in Bob Woodward. Il suo arresto, tanto scenografico quanto inutile, servirà a un’unica cosa, temo: spalancare la porta della Casa Bianca a Joe Biden nel 2020. E non perché la sua detenzione e il suo processo faranno emergere chissà cosa, magari contro Donald Trump, come la vulgata liberal sta già facendo intendere: magari semplicemente perché spazzerà via le accuse di molestie sessuali, la loro lettera scarlatta social in epoca di MeToo globale. Ma la partita sottostante questa mossa, è enorme: avete presente House of cards? Ecco, in questo caso però non si tratta di fiction. Pensateci. Come mai l’unica televisione ad aver documentato l’arresto in diretta, presente sul posto con tempismo perfetto, è stata Ruptly, ovvero un’emittente russa? Come mai la Russia, non esattamente la patria della trasparenza e della libertà di stampa, ha immediatamente dichiarato – attraverso la portavoce del ministero degli Esteri – che “la mano della democrazia stava strangolando la libertà di informazione”?
Ora, io sono stato il primo a dire che senza i russi la Siria sarebbe ancora la patria dell’Isis e delle decapitazioni di massa e lo confermo. Ma occorre anche essere un minimo obiettivi: la Russia di Vladimir Putin che offre al mondo lezioni di libertà d’espressione è credibile? Certo, essendo WikiLeaks uno strumento d’informazione che focalizza la sua attenzione principalmente sugli Usa, appare ovvio che il Cremlino ne sostenga la causa. Così come appare abbastanza originale, un po’ sospetto, il silenzio tombale che la stessa WikiLeaks ha tenuto nei confronti dello scandalo che per due anni ha tenuto con il fiato sospeso proprio Washington, ovvero il Russiagate. Era una bufala, come si sapeva dall’inizio? Come mai WikiLeaks, visti i suoi potentissimi mezzi e i suoi addentellati mondiali, non ha sostenuto e avvalorato questa tesi a colpi di cables, allora? O, al contrario, come mai non ha dato man forte al procuratore Robert Mueller e alla sua inchiesta, se ci fossero stati elementi a suffragio della tesi dell’accusa?
I potenti non sono tutti cattivi, quindi? WikiLeaks fa figli e figliastri? Semplicemente, la corazzata mediatica che ha millantato scoop su tutto e tutti per mesi interi, ha preferito non occuparsi della faccenda. Strano. Almeno, a me pare tale. Ma non lo è, se si conoscono un po’ i fatti. Perché una delle principali tesi dietrologiche che hanno seguito l’elezione di Donald Trump fu proprio quella che delineava un’alleanza fra il tycoon newyorchese e il Don Chisciotte dei segreti di Stato in chiave anti-Clinton. A garantire credibilità mediatica alla tesi fu la confessione, poi ritrattata, di Roger Stone, ex uomo cardine della campagna elettorale di Donald Trump, il quale ammise di aver avuto un canale di contatto diretto, ancorché nascosto, con WikiLeaks. A fine gennaio scorso, quest’uomo fu arrestato nella sua villa di Fort Lauderdale in Florida per sette capi di imputazione – cinque per false dichiarazioni al Congresso, uno per ostruzione della giustizia e l’ultimo per aver condizionato un testimone – su ordine diretto del super-procuratore Mueller. Insomma, si voleva far saltar fuori la connessione fra Trump e Assange, il tutto sotto l’ombrello della cosiddetta Russia connection per far perdere la Clinton, ma qualcosa è andato storto? Il problema è: se Assange era in combutta con Trump, perché il ministero della Giustizia Usa stava lavorando da mesi per farlo estradare? Trump ha fatto il doppiogioco, utilizzando Assange finché ne ha avuto bisogno, salvo poi scaricarlo?
Se questo fosse vero, forse il profilo di castigatore dei potenti del fondatore di WikiLeaks andrebbe un po’ rivisto e declinato in chiave di ingenuità, cosa ne dite? Oppure, il Dipartimento della Giustizia lavora contro la Casa Bianca? A quel punto, Assange sarebbe solo l’anello debole di un complotto ben più ampio tutto interno agli Usa. Ma i complotti (che esistono, eccome), in quanto tali, vengono male in televisione, preferiscono la sobrietà dell’anonimato e della penombra del ricatto silenzioso. E se la risposta di Donald Trump alle domande dei giornalisti sull’arresto – “Non so nulla su WikiLeaks, non mi riguarda” – rientra a pieno nel profilo del personaggio, il quale durante la campagna elettorale dedicò decine di tweets con lodi sperticate ad Assange per la sua campagna contro la Clinton, più interessante e in linea con la reazione russa all’arresto di Assange appare la reazione di Hu Xijin, direttore di Global Times, di fatto la voce pubblica nel mondo del governo di Pechino. Il quale, paragonando provocatoriamente Julian Assange al dissidente cinese Liu Xiaobo, si chiedeva come mai il primo fosse stato arrestato dall’Occidente, mentre il secondo dal medesimo Occidente ha ottenuto il Nobel per la Pace. “Assange ha scelto il bersaglio sbagliato”, sentenzia Xijin nel suo tweet. Insomma, guerra diplomatica. E una, seppur più indiretta rispetto a quella moscovita, difesa di Assange da parte di un governo che verso la libertà di stampa ed espressione certamente non può dare esempi di tolleranza e tutela.
Signori, siamo di fronte all’ennesima, enorme mistificazione mediatica. Questa, però, è decisamente seria rispetto alle altre. E pericolosa, nel senso che sottende una guerra totale di assetti di potere interni agli Usa che, giocoforza, coinvolgerà anche gli alleati, oltre ai nemici. Più o meno reali, più o meno giurati. Parliamoci chiaro: WikiLeaks, al di là dei proclami e della nomea da Robin Hood dell’informazione, al potere – quello vero – ha sempre e solo fatto il solletico. D’altronde, quale efficacia pensate che possa avere la pubblicazione di qualche migliaio di pagine di documenti diplomatici o militari alla volta, molti in codice, magari in crittografia non lineare? Quante gente pensate che li abbia letti davvero, salvo ieri stracciarsi le vesti sui social in difesa del paladino della libertà di espressione, al grido Je suis Julian? L’unico caso di rilevanza mediatica un po’ pop, WikiLeaks l’ha ottenuto con quella pagliacciata dell’inchiesta Panama papers, ovvero niente più che una lista di persone che evadeva il fisco e nascondeva i soldi in paradisi fiscali. Accidenti, che scoperta rivoluzionaria e in grado di destabilizzare il mondo! Serviva Julian Assange per scoprire che i ricchi, soprattutto quelli diventati tali con metodi non proprio legali, tendono a mettere i loro risparmi in Paesi con legislazioni allegre in fatto di conti bancari, trustee, prestanome assortiti e investimenti fittizi? Sherlock Holmes, il dottor Watson e James Bond stanno mordendosi le mani dall’invidia! E poi, quanti di quei personaggi sono finiti – non dico in galera – ma almeno davanti a un tribunale per i propri presunti reati di elusione ed evasione? Oppure hanno semplicemente transato con il fisco del loro Paese, il quale li ha anche ringraziati per la collaborazione e per aver saldato un quinto (o un decimo, magari) del dovuto?
Siamo seri, per favore. Tanto più che, a onor del vero, Julian Assange era rifugiato nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra dal 2012 per sfuggire ad accuse di molestie sessuali da parte di due ex collaboratrici di WikiLeaks. Una macchinazione per farlo tacere e metterlo in difficoltà? Non mi pare che abbia taciuto, né che WikiLeaks abbia smesso di pubblicare negli ultimi sette anni. Anzi. E poi, esattamente come per il Russiagate, come mai se si tratta di un complotto, di false accuse, la stessa potentissima macchina da guerra informativa di Assange non è riuscita a trovare le prove per svelarlo al mondo, restituendo la reputazione e la libertà al fondatore? Volete dirmi che riescono a trovare dispacci dei servizi segreti e degli alti comandi militari, ma non la prova della corruzione di una signorina che grida allo stupro? Non un bonifico, un assegno, una telefonata o un sms di troppo? Proprio niente? Distruggi la reputazione di Hillary Clinton, ma non della signorina Pinco Pallino? Insomma, WikiLeaks è onnipotente a giorni alterni e su argomentazioni alterne.
Fu bravissima, appunto, a seguire e svelare i dettagli della storiaccia del server privato utilizzato da Hillary Clinton, quando era a capo del Dipartimento di Stato, per gestire mail classificate e confidenziali, al di fuori dell’ambito ufficiale. Leggemmo i carteggi elettronici fra la ex candidata alla Casa Bianca e Max Bluementhal, l’uomo di fiducia dei Clinton che – pur non avendo credenziali né diplomatiche, né federali – era destinatario di mail molto riservate dell’allora ministro degli Esteri Usa. Parlarono molto i due, via posta elettronica. Anche dell’attentato a Bengasi, in Libia, dove nell’attacco al consolato statunitense dell’11 settembre 2012 morì l’ambasciatore Christopher Stevens. La Clinton fu anche sentita dal Congresso al riguardo, una testimonianza drammatica. E nodi molto caldi vennero quasi a galla, fra cui l’utilizzo della Libia come testa di ponte per far giungere armi alle formazione anti-Assad in Siria tramite la Turchia. Roba grossa, insomma. Eppure, WikiLeaks non è riuscita a trovare una virgola sul Russiagate. E nemmeno per screditare le due accusatrici di Julian Assange. Il quale, proprio ora, viene arrestato a Londra e rischia l’estradizione in Virginia. Proprio ora che la Libia è tornata prepotentemente alla ribalta della destabilizzazione globale. Proprio ora che le acque in casa Democratica statunitense cominciano ad agitarsi in vista delle primarie.
Chissà, magari agli Usa non frega proprio nulla di processare e incarcerare Assange, perché lo ritengono una spia o un irresponsabile diffusore di notizie sensibili: interessa solo mandare un messaggio a qualcuno. Finirà in una pagliacciata come con Chelsea Manning, la prima grande gola profonda di WikiLeaks? Ricordate? L’ex militare che passò all’organizzazione di Assange migliaia e migliaia di documenti sulle operazioni in Iraq, torture e abusi inclusi, divenuto poi donna, condannato a 35 anni di carcere per reati contro la sicurezza nazionale, graziato da Barack Obama, liberato nel maggio 2017 e poi tornato in carcere, dopo essersi rifiutato di testimoniare. All’epoca, Julian Assange disse che era pronto a farsi estradare negli Usa, se Manning fosse stata liberata. Quando arrivò la grazia, però, si limitò a twittare la sua soddisfazione per la notizia, ma restò tranquillamente a Londra. In esilio. Qualche conto era in sospeso, forse e ora l’accelerazione è stata forzata da imminenze ben più serie di generiche e molto hollywoodiane volontà della Cia di tappare la bocca a un giornalista libero?
Che combinazione, ad esempio; Joe Biden, candidato forte per contendere la Casa Bianca a Donald Trump nel 2020, è finito subito sotto il fuoco delle critiche per condotte sessualmente sconvenienti nei confronti di alcune donne. Ricorda qualcosa o qualcuno, forse? Julian Assange patirà la “cura MeToo”, ovvero la presunzione di colpevolezza ex ante oppure nel suo caso prevarrà la sua figura di combattente senza macchia e senza paura contro il potere, quindi le donne che lo accusano saranno immediatamente bollate come “puttane prezzolate”, quando e se inizierà il processo al riguardo richiesto dalle autorità svedesi? Pensateci. E, sempre in tema di combinazioni assolutamente fortuite e casuale, che dire del fatto che poche ore dopo l’arresto in mondovisione – grazie alla misconosciuta tv russa – di Julian Assange a Londra, da Washington arrivasse la notizia che Gregory Craig, noto avvocato ed ex consulente di Barack Obama alla Casa Bianca fosse stato accusato di aver mentito e nascosto informazioni riguardo il suo lavoro per l’Ucraina nel 2012? E, guarda caso, l’indagine a suo carico nasce proprio da un’emanazione di quella sui presunti tentativi russi di condizionare le presidenziali del 2016, l’inchiesta sul Russiagate del procuratore Mueller.
Al centro delle accuse, ci sarebbe la testimonianza rilasciata da Craig il 19 ottobre del 2017 dinanzi all’Ufficio del consigliere speciale riguardo il ruolo della Skadden Arps, azienda assunta dall’allora presidente ucraino, Viktor Yanukovich, fedele a Mosca, per giustificare la decisione di perseguire e imprigionare la sua rivale politica, la ex premier Yulia Tymoshenko. Accidenti, proprio adesso salta fuori questa notizia! Non solo relativa a un fatto del 2017, ma anche dopo che, come confermato dall’avvocato di Gregory Craig, l’ex consulente di Obama aveva risposto alle domande degli inquirenti, chiarendo la sua posizione, presso le autorità federali nel distretto di Southern New York. Ah, quasi mi scordavo: Gregory Craig è stato anche consigliere legale dell’ex presidente Bill Clinton. E, guarda caso, il suo caso sembra aprire (o minaccia di farlo, in fieri) un nuovo filone ucraino del Russiagate che delineerebbe un quadro di destabilizzazione del Paese precedente al di fatto colpo di Stato che ha portato al potere Petro Poroshenko, sulle ali dell’interessamento Usa e con la sponsorizzazione del Fmi. Il tutto, a dieci giorni dal primo turno delle presidenziali che ha visto l’uomo di Washington letteralmente stracciato dal comico Volodimir Zelenski, il quale si approccia al ballottaggio del 21 aprile prossimo forte di un 71% contro solo il 28% di Poroshenko.
E potrei andare avanti. Per molto, anche. Proprio sicuri che quella di Julian Assange sia soltanto la storia in bianco e nero di un eroe senza macchia, un mero scontro di buoni contro cattivi, che ci vogliono raccontare? Davvero questo oscuro personaggio saltato fuori dal nulla, a capo di una corazzata di intelligence degna di un servizio segreto, sia un esempio di lotta per la verità, per la libertà di stampa e di espressione? O, magari, è soltanto l’ennesimo traffichino e faccendiere della peggior risma che, divenuto inutile o fuori controllo, viene scaricato e utilizzato come alibi e copertura per una resa dei conti ai massimi livelli, in vista delle presidenziali 2020 e di uno showdown globale sui nuovi equilibri di potere? Guardate qui, si tratta dell’atto di accusa della Corte della Virginia in base al quale gli Usa chiederanno alla Gran Bretagna l’estradizione di Julian Assange. È brevissimo ma ve lo riassumo, tanto per evitarvi la fatica. Un solo capo di imputazione: il tentativo di hackerare un computer governativo in collaborazione con Chelsea Manning. Vi pare che tre governi – Ecuador, Stati Uniti e Gran Bretagna (più quello svedese per le accuse di violenza sessuale) – metterebbero in piedi un cinema mediatico tale, garantendo al fondatore di WikiLeaks un martirio globale senza prezzo, per una idiozia da nerd – da smanettone stile Napalm 51 – di questo infimo livello, almeno paragonato a quanto già pubblicato e reso noto negli ultimi nove anni? Oppure il buon Julian deve tornare a Langley per svuotare l’armadietto, senza farsi scoprire e dando il meno nell’occhio possibile? Chissà.