Vive sotto scorta dal 1993: è vice Procuratore Antimafia e Antiterrorismo. Nel 1999 ha iniziato a indagare sulle stragi di Capaci e di via D’Amelio, che sono costate la vita a Falcone e Borsellino, oltre agli agenti delle rispettive scorte. Si è anche occupato degli omicidi dei magistrati Rocco Chinnici e Antonino Saetta, riconoscendo i mandanti e facendoli condannare. Cosa che ha provocato la reazione del responsabile del secondo, Totò Riina, che lo ha minacciato di morte dal carcere in cui è rinchiuso con la pena dell’ergastolo. Questo il curriculum del magistrato Antonino Di Matteo, al quale è stata offerta anche un auto blindata speciale, per i suoi movimenti, che ha rifiutato dicendo che assomigliava più a un carro armato e non era adatta a circolare nei centri abitati. Lo abbiamo incontrato a Buenos Aires, dove insieme ai suoi colleghi dell’Antimafia ha svolto un seminario sulla lotta alla mafia e alla corruzione che, davanti a un attento uditorio composto da autorità politiche e legislative argentine, oltre a un folto gruppo di studenti, ha trasmesso a una nazione dove la lotta contro il crimine organizzato e la corruzione sta registrando successi fino a poco tempo fa inimmaginabili la propria esperienza e le conoscenze in materia, oltre alla speranza di poter vivere, con il contributo di tutti, in un Paese migliore.



Seminario importantissimo e molto seguito quello appena terminato, dove avete illustrato la vostra esperienza…

È stato un incontro molto utile sia per noi magistrati italiani, ma, mi consenta di dire, credo ancor di più per i colleghi argentini, i politici e i cittadini. Noi in Italia abbiamo avuto mafie e in particolare Cosa Nostra, quella che è ritenuta la più potente al mondo, che ha ucciso decine di magistrati, imprenditori, giornalisti, carabinieri, poliziotti… quella che ha avuto anche rapporti con la politica nazionale. Però abbiamo avuto nel tempo, anche a causa del sacrificio di tanti miei colleghi che sono morti, una capacità di reazione: abbiamo una legge antimafia che il mondo ci invidia, ma che, paradossalmente, in Italia qualcuno vorrebbe cambiare come anche gli istituti quali le intercettazioni telefoniche, la legislazione sui collaboratori di giustizia, quella sul sequestro dei beni e il carcere duro per i capimafia. Tutta questa cultura credo che dobbiamo cercare di esportarla.



In che modo?

Dobbiamo far comprendere che le mafie, che ormai stanno in gran parte del mondo, non costituiscono solo un problema di criminalità comune, ma sono un fattore di compromissione delle libertà e delle democrazie al mondo. Ecco perché credo che sia doveroso trasmettere la nostra esperienza italiana a un Paese come l’Argentina che sicuramente, come tutti i paesi del Sudamerica, è a grossissimo rischio di infiltrazioni della mafia non solo per il fenomeno del narcotraffico, ma anche per quello di certe mafie italiane che già hanno rapporti significativi anche qui.

A questo si aggiunge il problema della corruzione, che proprio qui in Argentina sta per essere affrontato alla stregua di una Mani Pulite locale. Avete per caso raggiunto accordi particolari con le autorità di questo Paese, oltre a quelli già esistenti internazionali?



Finora la collaborazione ha riguardato principalmente traffici internazionali di stupefacenti. Quello che è importante è cercare di capire a tutti i livelli, argentino e italiano, che la corruzione ormai non è una cosa completamente diversa dal metodo mafioso. Sempre più spesso le mafie tradizionali rinunciano alla violenza e si avvalgono del metodo corruttivo per raggiungere le loro finalità: mafia e corruzione sono diventate, in Italia, ma anche in Argentina per quello che leggo sulla stampa, due facce della stessa medaglia e vanno affrontate con determinazione.

C’è qualche strumento che permetterebbe di farlo?

Possibilmente con una legge che tratti allo stesso modo i due reati, che consenta ai magistrati di indagare incisivamente su entrambi, visto che non si può considerare la corruzione come un reato minore rispetto ad altri o come una ineluttabile necessità per andare avanti economicamente. La corruzione uccide la libertà, la democrazia e grava sui cittadini onesti, i più deboli e i poveri. Ecco perché ormai dobbiamo ritenerla una faccia diversa della stessa medaglia: quella di un sistema criminale integrato che, a seconda delle convenienze, usa i metodi violenti o quelli corruttivi che sono purtroppo diffusi in tutto il mondo.

Quello che ha colpito tutti i presenti a questa assise, oltre alla vostra indiscutibile professionalità, è stato l’aver ricevuto il vostro entusiasmo e la passione che avete profuso nel trasmettere il vostro lavoro. E tra il pubblico c’erano anche tanti giovani: come vede il loro interesse nel combattere le mafie?

Faccio il magistrato antimafia dal 1991 e ho fatto i primi anni di tirocinio con Falcone e Borsellino. Li ho visti saltare per aria e mi sono occupato per anni di tutti i processi per le stragi. Io come tanti miei colleghi non dimentichiamo quei momenti, quindi quello che lei definisce entusiasmo è consapevolezza dell’importanza del nostro lavoro, senza la quale non si va da nessuna parte. L’impegno dei giovani è fondamentale: dopo 25 anni di carriera sono convinto che per vincere le mafie non è sufficiente l’impegno della magistratura e delle forze dell’ordine. Si devono realizzare due condizioni, senza le quali noi non sconfiggeremo mai la mafia.

Quali sono queste condizioni?

La prima è un cambiamento della politica. A tutti i livelli e in tutti gli Stati la politica deve capire che la lotta alle mafie e al sistema corruttivo deve costituire il primo obiettivo di qualsiasi colore essa sia, perché ambedue costituiscono una compromissione della democrazia, che rischia altrimenti di rimanere una mera affermazione formale. La seconda condizione è quella che deve cambiare la mentalità delle persone. Deve partire, proprio dai giovani, una rivoluzione culturale, non violenta, che cambi quella mentalità troppo diffusa per cui si pensa che in fondo con i sistemi mafiosi si possa convivere, quella mentalità della rassegnazione e del non voler occuparsi di questi problemi. Io, come anche tanti colleghi, quando ne ho la possibilità e il tempo, vado nelle scuole, nelle università e incontro tanti giovani che, quando vedono e capiscono che un esponente delle istituzioni crede in quello che fa, si entusiasmano e ritrovano fiducia.

Come del resto è avvenuto qui…

Anche in questi giorni abbiamo visto tanti giovani argentini e uruguaiani che sono venuti ad ascoltare i vari interventi del seminario: è stato molto bello perché è proprio partendo dall’entusiasmo, dalla loro voglia di conoscere e di approfondire, che quella rivoluzione culturale si potrà un giorno verificare. Molti di loro li avevo visti a Palermo, perché in alcune occasioni di anniversari delle stragi in cui vennero uccisi i giudici Falcone e Borsellino hanno partecipato. E questa costituisce una grande iniezione di fiducia non soltanto per noi magistrati, ma per tutti. Noi dobbiamo augurarci che i giovani capiscano che la lotta alla mafia e alla corruzione non è soltanto una questione che riguarda solo a magistratura e polizia: include tutti perché il sistema mafioso attuale uccide la libertà, la dignità e la democrazia.

(Arturo Illia)