L’attrice Ashley Judd, vittima di Weinstein e una tra le prime a denunciare pubblicamente le molestie sessuali ricevute contribuendo così a dare forza al movimento #MeToo, continua la sua battaglia per le donne, convinta che testimoniare sia fondamentale per indurre cambiamenti. Questa volta dice che dopo una violenza subita è rimasta incinta ma, grazie all’aborto, non ha condiviso il figlio con lo stupratore: in caso diverso, infatti, sarebbe stata costretta ad accettare come padre della propria creatura il proprio violentatore. E quindi il “padre” – d’obbligo le virgolette – avrebbe avuto dei diritti anche sul bambino.
In questi casi mi accorgo come parlare a forza di principi sia una violenza. Ovviamente non difendo l’aborto e sono il primo a dire che quella vita sarebbe stata sacra in ogni caso, ma il medesimo principio che mi conduce a rifiutare l’aborto – il rispetto per la vita – mi porta a guardare quanto sia sinceramente drammatica la situazione di una donna che non solo porta nel proprio grembo un bambino frutto di una violenza, ma è anche costretta in qualche modo a condividerne con il padre la quotidianità per anni e anni.
Che devastanti conseguenze ci possano essere dal punto vista psicologico e legale nel mettere al mondo un bimbo in questa situazione? Cosa accadrebbe se il padre lo riconoscesse? Se potesse vantare dei diritti sulla creatura e così continuare a ricattare la madre, di fatto, perpetuando la violenza? Cosa accade a una madre che, con il passare degli anni, ogni volta che vede suo figlio, riconosce in lui i tratti fisici che lo fanno somigliare al padre? Come si può crescere un bambino che somiglia a chi ti ha ferita in un modo incalcolabile? La questione di Ashley è molto diversa da quella di una donna che rimane incinta dopo un stupro subìto da parte di una persona che non incontrerà più nella vita.
Ovviamente, le parole della Judd non mi fanno cambiare idea sull’aborto, ma mi aiutano ad essere vicino alle storie di donne che, diversamente dall’attrice americana, sono andate incontro a esperienze del genere in punta di piedi. Non come chi ha in mano la verità, come sembra essere in questo caso l’atteggiamento dell’attrice, ma come chi desidererebbe solo condividere un dolore e magari sentirselo alleviato un po’. Mi infastidisce non poco il modo in cui la Judd fa diventare, rispetto all’aborto, la propria scelta come paradigmatica e doverosa. In cui si erge essa stessa a bandiera ed emblema. È doveroso mettere sotto i riflettori la vicenda #MeToo ma fare altrettanto con il diritto di abortire? Non è strumentalizzare un dramma solo perché si teme che, nel paese più liberal del mondo, si corre il rischio di porre qualche restrizione all’aborto? È giustificata questa scelta, soprattutto se portata avanti non da una povera donna sola ma da una delle attrici più conosciute al mondo?