La sanità calabrese insegue sempre il suo peggio. Da circa nove anni il settore della salute, nella Regione, è gestito da un “commissario ad acta per il piano di rientro”, un modello gestionale che si presenta però come una sorta di Cerbero, un mostro a tre teste: quella del commissario nominato dal governo centrale; quello dell’amministrazione regionale, che conserva comunque alcune competenze organizzative; quello degli interessi privati che va dai gestori della sanità privata fino ai sindacati. Il tutto condito con gli interventi della magistratura, soprattutto amministrativa, più sporadicamente contabile e penale. E le notizie degli ultimi giorni ne sono un’ulteriore conferma.
Domenica mattina un’anziana signora è stata colta da un malore mentre partecipava a una funzione religiosa a Catanzaro; qualcuno chiama il 118, la risposta è che non ci sono ambulanze disponibili e nessuno può intervenire. Un medico presente in chiesa presta i primi soccorsi, la signora fortunatamente si riprende, ma c’è comunque la necessità di portarla in ospedale per ulteriori esami e per monitorarla in regime di ricovero. Nuova telefonata al 118, ma la risposta è sempre quella: “Non abbiamo ambulanze disponibili”. La paziente viene accompagnata in macchina in ospedale ed alla fine deve ritenersi fortunata: era comunque in un posto frequentato, con un medico casualmente disponibile e si trovava nella città capoluogo, con la presenza del più grande ospedale della Regione a solo un paio di chilometri dal luogo del malore.
Discorso diverso, purtroppo, è quando questi malori colpiscono anziani nei piccoli paesini, male o per nulla collegati a causa anche di una rete stradale che già prima poteva definirsi fatiscente e che dopo la pseudo-abrogazione delle Province è del tutto abbandonata. Gli ospedali più piccoli, diffusi sul territorio, sono stati progressivamente chiusi nel corso degli ultimi anni ovvero trasformati in una sorta di poco utili poliambulatori.
E qui si conferma un’ormai stantìa diatriba: la letteratura scientifica, fatta propria anche da un decreto del 2015 emanato dall’allora ministro Beatrice Lorenzin, dice che le attività di pronto soccorso, quando hanno una casistica insufficiente, stimata in almeno 20mila ricoveri annui, andrebbero chiusi, perché non sono per nulla in grado di fornire un livello di adeguata qualità delle cure. Nella situazione attuale, dei 22 pronto soccorso presenti sul territorio regionale almeno sette dovrebbero essere chiusi.
Resta il problema, inconcepibile in un Paese che ama definirsi avanzato e civile, di quale assistenza d’urgenza fornire a persone, per lo più anziane, distanti almeno due ore d’auto da un ospedale di dimensioni (e si spera di qualità) adeguata. A meno che non si vogliano far brulicare i cieli calabresi di elicotteri adibiti al soccorso, come pure si era tentato di iniziare a fare nei primi anni Duemila. Ma a quali costi?
I sindacati, oltre a difendere posizioni di comodo di qualche loro dirigente, si preoccupano – giustamente – di difendere l’occupazione e gli stipendi non pagati della sanità privata: un sistema privato con qualche eccellenza, ma anche con tante prestazioni di scarsa qualità e che di solito per incassare i propri crediti verso il sistema sanitario regionale deve utilizzare decreti ingiuntivi o sentenze dei Tar.
Non sono serviti a molto, evidentemente, i nove anni di commissariamento, che adesso, nel tempo del governo Lega-5Stelle, prosegue con l’ex generale dei carabinieri Saverio Cotticelli. E poche speranze arrivano dal Consiglio dei ministri, che si terrà domani a Gioia Tauro, in cui saranno prevedibilmente ampliati i poteri del commissario straordinario su input del ministro della Salute, Giulia Grillo.
La conseguenza forse più grave della crisi della sanità calabrese, al di là delle schermaglie politiche, delle idee di risanamento spesso legate più a propositi demagogici che non a reali volontà di intervento, è il depauperamento delle professionalità all’interno degli ospedali calabresi. I medici bravi, che pure non mancano, assillati da carenze strutturali, deficit organizzativi, pazienti e familiari vittime di una disperazione che spesso sfocia in denunce a danno dei medici quando non in aggressioni fisiche, quando possono scappano dalla Calabria. Di recente si sono verificati anche casi di concorsi per dirigenti di strutture complesse (ovvero primari) andati deserti.
In un clima di diffusa illegalità percepita, gli interventi delle procure sulla sanità calabrese sono quelli che riguardano forniture, piccole truffe e abusi d’ufficio, su questioni che da almeno un trentennio si ripresentano senza che nulla cambi: i servizi di lavanderia, le forniture dei pasti, qualche infermiere assenteista.
I calabresi, quando possono o comunque quando sono costretti dalla disperazione – e con grandi sacrifici – continuano ad andare a curarsi in Lombardia, proprio lì dove chi ha contribuito a rendere il sistema regionale sanitario uno dei migliori d’Europa, si trova oggi privato della libertà personale.